La processione di entrata nella cattedrale di Nampula (Mozambico) è una lenta e solenne immersione in un’enorme folla nera. Questa riempie tutta la vasta e bianchissima cattedrale di stile coloniale. Volti neri, allineati, fittissimi, con gente in piedi alle tre porte di entrata. Cantano tutti in portoghese, ma il loro volto è di un bel colore ebano-scuro, africano. Con in più i tamburi che colorano ancor meglio l’atmosfera di qui…

Si avanza con la processione tra due lunghissime ali di confirmandi che oggi sono quasi duecento. Danzano, pur restando fermi. Ancheggiano ritmicamente, con quella stupenda eleganza che ti fa avanzare come in un viale di giovani piante, belle e ondeggianti. “La messa da noi è sempre una festa!” mi ricordava in sacrestia un prete nero. Verissimo. Arrivati all’altare, trecento occhietti su sfondo scuro ci attendevano, puntati verso l’assemblea. Tutti i bambini sono ammucchiati, assiepati nello spazio absidale. Attentissimi.

Terminato il canto, le prime parole dell’arcivescovo monsignor Tomé cadono sulla folla come le prime, attese gocce di un acquazzone africano. Parole benefiche. “In queste due-tre ore insieme, non tanto di folclore, ma di intimità con Dio, vogliamo pregare per questi giovani cresimandi. E portiamo nella nostra preghiera anche le migliaia di rifugiati nella nostra diocesi e i migranti del Mozambico.” La folla assorta in questa domenica di Pentecoste, festa delle lingue e delle culture, assorbe le sue parole come una spugna. Mentre mi dico, tra me e me: “Qui siamo veramente in Africa, il tempo non si conta mai…”

E così comincia il canto: i tamburi, le voci, le mani, il loro ritmo con due colpi e due pause, un lunghisssimo grido corale al suo acme, al punto più alto… si spengono, infine, d’incanto. E si piomba subito in un silenzio perfetto, immobile. La miriade di volti neri ti fissa dall’assemblea con gli occhi ben aperti. Lunghi momenti di attesa… e una vera emozione mi prende.

Poi, la parola esce dalla bocca del lettore. Viene offerta con gesto lento, come gustandola prima, ruotandola nel palato, assaporandola. Parola calma, sonora e solenne. Vedi subito dagli occhi e dal silenzio come ognuno la riceve: la attende, la gusta, gli risuona nelle tempie, gli fa brillare lo sguardo, scende nell’anima, in profondità. Comprendi, allora, concretamente che cosa vuol dire una “civiltà della palabra”  come questa africana. La parola qui è sacra. È sintesi di cuore, di corpo e di mente. E ancor più dell’amore di Dio, fattosi Parola lui stesso. Essa si posa nella vita di ognuno subito dopo l’ascolto e la penetra per darne forza, bellezza e coraggio.

E corro con il pensiero alle nostre liturgie: letture non proclamate, ma lette semplicemente, spesso in fretta, come una vecchia poesia imparata a scuola. Senza a volte neanche averle precedentemente assaporate, comprese o interiorizzate… Le parole scorrono veloci e il lettore, pure, che sparisce subito dopo con movimento rapido.

A qualche chilometro di distanza dalla nostra splendida cattedrale, nella povertà estrema di un campo di quasi 5.000 rifugiati, padre Rodenei, missionario scalabriniano, celebra la Parola di Dio con loro. È un missionario brasiliano di fronte a un’assemblea di congolesi, di burundesi, di ruandesi… rifugiati in un Paese straniero. Egli anima così la speranza e l’esistenza di uomini e di donne, che vivono ormai solo di esilio e di Dio. Anche il popolo ebreo, per lunghissimo tempo, si nutriva così.

Oggi, per questi immigrati la parola del Signore diventa fuoco. Si fa spirito di fortezza e di resistenza nelle loro esistenze fragili e tormentate. Spirito di coraggio e perfino di amore, nonostante tutto. Sì, spirito di Dio. Per loro, oggi, è veramente Pentecoste.

Renato Zilio
Autore di “Dio attende alla frontiera » EMI Ed.