Natale. È tempo che sa di intimità e del suo calore. Parla di prossimità. Festa dall’aspetto ovattato, magico, si snoda in un clima di musica, di canto e di poesia. Ma all’origine non era così. Anzi, il contrario. Aveva il gusto amaro della frontiera e delle sue sfide. 
 
Un Natale alla frontiera dell’accoglienza che si faceva rifiuto. Della lontananza dalla propria terra che diventava esilio. Alla frontiera degli uomini e del loro mondo, per farsi sosta tra pecore e animali. E ancora da un ambiente di casa trovare rifugio unicamente in una grotta. Contesto originale, per presentarsi agli uomini, da parte di Dio! Atteso dai secoli, da interminabili generazioni, da infiniti sospiri di profeti ecco il volto di un Salvatore. Nel cuore della notte, a Betlemme, è nato ancora un agnello. L’Agnello di Dio.
 
Per questo il Natale si fa invito alla frontiera. Ad andare al di là dei nostri ritmi e abitudini. Ad incontrare Dio attraverso le due categorie che preferisce: il novum, cioè la novità. E l’alterità, l’altro, lo straniero. E sono i tratti di chi viene da altrove e da lontano.
 
Con la memoria ciò mi fa andare al Natale di anni fa, tra italiani emigranti, a Bedford, in terra inglese. Alla messa di mezzanotte, il miracolo si compiva subito. All’arrivo di Antony, un fagottino di appena quattro settimane, che viene posto subito tra la paglia, sotto l’altare. Il gruppo di bambini della parrocchia canta imperturbabile  “Astro del ciel” , mentre lui strilla a contrappunto con tutte le sue energie. Una corale inedita. Per prendere, infine, sonno, dolcemente. Un’assemblea fittissima di vecchi emigrati italiani, specialmente dal Sud, guarda, ammira e pensa forse a quanto ha pianto essa stessa per poter rinascere qui in terra straniera. Ricostruire la propria vita tra mille e una difficoltà. Anche se qui, nel mondo inglese, a differenza che da noi, freedom, la libertà di fare, di intraprendere, di lanciarsi è senz’altro impareggiabile, anzi unica. Senso di un popolo di mare, dall’intraprendenza e dagli orizzonti aperti. 
 
“Sono venuti moltissimi da un ambiente mafioso e povero” mi soffiava Padre Mario, il parroco, un giovanile ottantenne, parlando dei nostri “ma qui hanno dovuto rimboccarsi le maniche, credere in stessi, camminare da soli. Sono stati ammirevoli!” Accanto al presepio, l’albero di Natale si illumina grandioso, come in tutte le chiese inglesi. Ma avverti, altrettanto grandioso, un forte senso di comunità, di radici comuni e di italianità.
 
Un popolo che camminava nelle tenebre e che veniva da lontano, si era messo un duro giorno in viaggio… Come Maria e Giuseppe. È il loro, forse, il Natale più vero, autentico. Al posto di chi non si è mai mosso dalla sua terra. Non potrà mai capire questo bambino nato lontano da casa. Da una famiglia in cammino, sprovvista di tutto e sperduta. Una nascita che sconvolge le frontiere, dall’Oriente dei re magi alla fuga forzata in Egitto. Come sempre, Dio lo si incontra, solo quando ci si mette in cammino.
 
E lo sento, in fondo, come un invito potente per tutti – specie per chi è rimasto ancorato alla propria terra – a costruire comunità. Ad accogliere novità e alterità. Ad uscire dal nostro piccolo mondo antico. A formare un popolo unico con coloro che camminano. A inseguire insieme la luminosità di una stella, cioè valori grandi e comuni come dignità, fratellanza, compassione, empatia. In una calligrafia da bambino, qui sotto l’albero di Natale di una chiesa inglese, una frase di Susanna Tamaro: “Dobbiamo camminare per costruire un mondo non più fondato sul giudizio e il pregiudizio, ma l’umiltà e la comprensione”. Buon Natale!

R.Z.