Porto Recanati. Anche in tempi di coronavirus, il tristo palazzone si stagliava alto e severo, quasi impassibile, imbottito di paraboliche e di stracci stesi. Accanto, il dolce profilo del mare Adriatico sembrava rassegnato di tale prossimità. Di tanta audacia. È il famoso Hotel House, definito dalla stampa locale « una vergogna nazionale ». Costruito fine anni ’60, sui bordi del mare come hotel estivo per turisti, i suoi sedici piani, con circa 500 appartamenti si sono riempiti ben presto di circa duemila immigrati di 40 nazionalità differenti.  Un ghetto verticale. Otto ascensori che non funzionano, l’acqua potabile portata già a suo tempo da un’autobotte, mucchi di immondizia in ogni dove. Un popolo acquartierato nel degrado.

Unica nota di umanità, all’ottavo piano la presenza dell’ambulatorio del Dott. Francesco Paolo, che qui lavora come alla frontiera, e la vive come una vera missione. L’abbiamo visitato quasi per sostenere la sua presenza di resistente e la sua opera coraggiosa con il Direttore generale Migrantes Gianni de Robertis, giusto un anno fa. Malattie qui? le più varie, ma la peggiore la depressione delle donne. L’ambiente logora lo spirito. Fin tempo fa, anche un’associazione locale, la Tenda, era impegnata nell’animazione pomeridiana di un gruppo di bambini, in un paio di locali al pianoterra. Negli appartamenti, gli spazi già limitati, stanno ancora più stretti, in questi mesi di clausura generale. Impossibile per Fatima, ventenne, universitaria a Macerata, preparare gli esami, visto che l’unica stanza possibile è come sequestrata dal fratello maggiore. Sarà, forse, la predominanza maschile della cultura magrebina.

In questo difficile contesto, i giornali locali, settimane fa, uscivano a caratteri cubitali «Grandi pulizie all’Hotel House, mobilitate tutte le etnie». Spiegando, in tempi di crisi sanitaria, che si era instaurato un « nuovo modo di vivere condiviso tra le etnie ». Qualcuno del posto la definisce perfino « una volta storica », in una grande sinergia tra tutte le etnie presenti, con mascherine e, a volte, tute mimetiche. Vedere, così, senegalesi e pakistani lavorare insieme per prendersi cura del loro habitat è sembrato un vero miracolo. Veniva in mente quanto affermava anni fa una religiosa francese, suor Geneviève, di un enorme condominio degradato della banlieue parigina. Solo quando era riuscita – dopo mille tentativi e una montagna di pazienza – a convincere i giovani di quel condominio imbrattato e deprimente a dare essi stessi il colore e riqualificare le scale e i locali comuni, era successo qualcosa di strano. Come una rivoluzione indolore. Un nuovo clima di pulito, faceva respirare gli animi dei residenti un’aria di primavera. Sì, di umanità ritrovata.