Da padre Renato Zilio, missionario scalabriniano e direttore Migrantes Marche, una riflessione sull’importanza del dialogo

«Ma tu non ti confessi mai?» faccio un giorno al mio unico confratello, a bruciapelo. Mi risponde con un’occhiata un po’ incattivita. Come se mi fossi avventurato incautamente nell’intimior intimo meo. «Ma no! – gli ribatto – Non la confessione sacramentale, cosa tua sacrosanta, ma… dire quello che ti sta a cuore. Quello che in fondo ti fa male. O che ti fa star male…».

Ogni tanto parler vrai direbbero i francesi. Parlare a cuore aperto. Dialogare. Non chiudersi in un mutismo che non sappia condividere, preso dai propri pensieri. Senza dimenticare che «quando lanci le frecce della verità – come esorta un proverbio arabo – intingi sempre la punta nel miele».

Quando l’altro è di casa

Il 2020 è stato l’anno del Dialogo per la nostra congregazione scalabriniana. Senz’altro questo comincia a germogliare in noi stessi, tra di noi, coltivato nel proprio hortus conclusus. «Devi essere tu il cambiamento che vorresti vedere nel mondo» raccomanda un indimenticato leader indiano. Un giovane ex-confratello ci sorprendeva, invece, per l’entusiasmo disinvolto nel confessare le persone, facendolo alla domenica fino a qualche istante prima della sua Messa. Ciò ci interrogava: « Ha uno strano piacere di confessare gli altri, però lui non si confessa mai, non si apre mai, non parla mai di sé…».

Ricordo che una congregazione francese aveva prodotto una suggestiva immagine o un segnalibro, che ti trovavi sempre tra le mani. Vi stava scritto «Questi sono i nostri valori» e giù un elenco di qualità spirituali o non. Altrettanti segnali stradali sul cammino delle differenti comunità. Nel nostro segnalibro si potrebbe scorrere: Dialogo – al primo posto – Empatia, Spirito di humour e chissà quante altre sfaccettature di un carisma in cui la perfezione è un cammino, e non un fine. E dove la novità e la sorpresa dell’altro sono di casa.

L’importanza del terzo

Per dialogare bisogna trovarsi in tre. Non solamente a due, in comunità. Lo vedo qui e altrove. Il dialogo a due arriva spesso a un binario morto. Ognuno rischia di restare seduto, anzi paralizzato sulle proprie posizioni. La presenza di un terzo missionario, anche solamente per fare comunità, sarebbe particolarmente salutare. Sorge per incanto, tra l’altro, il senso di bene comune, e non quello dell’ognuno per sé.

L’anno del Dialogo dovrebbe anche stimolare incontri e formazioni per l’area europea, arenata in secche preoccupanti, da qualche tempo. Le nostre diocesi o servizi pastorali vari, invece, si sono lanciati nel dialogo a distanza via ZOOM, che si rivela una realtà sorprendente. Lanciati alla grande.

La tecnica indaba

E poi, il tempo per dialogare. La cultura zulu ha messo in campo una tecnica chiamata indaba, il parlare su un argomento spinoso, e questo per ore e ore. Riprendendolo in volte successive. Perché lo scopo è arrivare a un punto di incontro, mai a una rottura.

Ricordo come il sinodo dei vescovi anglicani, che si riunisce ogni dieci anni, tempo fa avesse adottato proprio la tecnica zulu dell’indaba per le sue discussioni più ardue. Da noi invece quando si profila il tempo dell’incontro, dello scambio e del dialogo: «Ma il sorriso dov’é mai ti é scappato?» mi é sfuggito l’ultima volta, vedendo volti tesi, già in anticipo, per questo tempo di scambio.

Relativizzarsi: una dote scalabriniana

Per dialogare bisogna sapersi svuotare. Lo faccio fare ai ragazzi a scuola, per introdurli in una dinamica interculturale. Quando chiedo di farmi tutti un vero bel respiro e subito, con la faccia rossa, si riempiono i polmoni per poi sbuffare. No, è proprio il contrario. In Estremo Oriente – dove si é affinata una plurimillenaria sapienza del respiro – si comincia per svuotarsi il più possibile. Il primo movimento è la kenosi. E preciso loro che una persona piena di sé non avrà nulla da accogliere, nulla da ascoltare dagli altri. Nessun dialogo. Svuotarsi di sé: grande lezione a livello fisico, psichico e spirituale.

«Deve solo sciogliersi un po’» mi confidava qualcuno che lo conosceva bene, parlando del nuovo parroco. Serio, preciso, pedagogo. Ma troppo ingessato, inquadrato. Coltivare allora lo spirito di humour, soprattutto su sé stessi. L’arte del relativizzarsi, di non prendersi troppo sul serio. E la trovo una dote squisitamente scalabriniana, aiuta il dialogo. E, per questo, da parte mia, a volte, con la fisarmonica mi faccio artista di strada. Paradossale, ma attraverso la musica faccio vivere la Fratelli tutti! e un bel senso di comunione… in fondo tutte ottime vitamine per il dialogo.

Padre Renato Zilio