Ormai in prossimità della festa del Corpus Domini, del “Pane di vita”, le nigeriane me ne parlano ancora, me lo ricordano… Lo rivivono con un’emozione segreta, intensa. E vorrebbero ripetere l’esperienza appena possibile: la danza del pane. Era nell’estate scorsa, nel caldo afoso di Jesi, vecchia Marca anconetana, quarantamila abitanti nel fondo di una pianura, stretta da colline come nel fondo di un catino. Ma più di un centinaio di Nigeriani, vestiti a festa con i loro lunghi abiti multicolori, provenienti da tutte le Marche, non si sono scoraggiati. Anche loro risentono dell’afa. Le donne mi ripetevano: “In Nigeria camminiamo per ore con il carico sulla testa a 40 gradi… ma qui non ce la facciamo.. Ma oggi è festa, Mothering Sunday, ci ritroviamo tra lontani…” E inizia la Messa. E così pure i loro canti ritmici, le movenze del corpo accompagnate dal battito delle mani, gli strumenti a percussione e le voci soliste con quelle corali che non possono non far sciogliere anche i più estranei in una vibrazione, che accompagna i ritmi naturali del corpo: il respiro, il passo, il battito del cuore. Qualcosa ti prende anche se non si spiega come o perché. Ti prende e basta. E non ti lascia come ti trova: ti scuote, ti sbalza, ti sovverte, ti butta sottosopra. È un incanto…
All’offertorio, dopo l’omelia di don Cristiano, prete diocesano, italiano ma poliglotta, ecco si snoda la danza del pane. Una enorme pane rotondo di quasi cinque chilogrammi, croccante, dorato, profumatissimo, offerto da un antico panificio di Loreto, è portato in processione. Porta una grande, bella croce al centro. Ed è come un’ostia gigante, che parla della vita dell’uomo e della vita di Dio. E di un mondo che sa trasformarsi, per raggiungere entrambi. Tutte le donne seguono in una fila interminabile, che solca lo spazio della chiesa. Quasi in un unico corpo, un unico passo, un unico canto. I ritmi della musica assecondano movenze di corpi flessuosi di uomini, di bambini dai vestiti etnici, lunghi, fantasiosi e coloratissimi. Mosse dolci, ritmate, lente. Con un’eleganza soave, armoniosa, la lunghissima fila va verso l’altare… in una gestualità che sa di grande sacralità. Quel pane prolungherà l’effetto dell’Eucaristia nel banchetto che poi segue. Verrà spezzato in piccole parti, consegnato ai vari gruppi e famiglie, perché per i giorni seguenti rimanga un po’ di sapore di festa, sapore di fraternità che si è celebrata insieme. E ricordo, in fondo, del senso di ogni vita di migrante. Vivere è saper spezzare la propria esistenza come il pane. Romperla… sì, rompere tutti propri legami, le proprie alleanze, le proprie abitudini. Ma per far vivere, nutrire gli altri. Per far vivere il mondo.
Don Alberto Balducci, Direttore Migrantes JESI