Per qualche giorno sono ricoverato all’ospedale di Jesi, una modernissima struttura, fuori città, su una altura collinare. Tutt’attorno, vigneti del rinomato «verdicchio», – il bianco di Jesi dalle tonalità verde-limone – si distendono su e giù per i colli. Sono solamente da ammirare… perché gli ospiti qui all’ospedale sono trattati rigorosamente ad acqua!

Ma la vostra sorpresa più grande avviene nella hall di entrata. Centinaia di occhi dietro una mascherina chirurgica vi osservano… una maxi-foto, plastificata, enorme, che dal pavimento sale all’altissimo soffitto. Venne inaugurata nella tarda primavera 2020. «La pandemia Covid ha rivoluzionato ogni nostra modalità di contatto interpersonale, riscoprendo il linguaggio degli occhi» recita una didascalia, Sono, infatti, gli occhi del personale medico del Pronto soccorso e dei reparti Covid. Si è voluto immortalarli così. E sono i nostri nuovi missionari.

Seguono, poi, in questo immenso poster altre considerazioni. «Siamo rimasti colpiti dalla bellezza di alcuni sguardi, di solito neanche considerati» continua il testo. «Occhi scintillanti ad inizio turno, più opachi al termine, sempre vivi ed illuminati dall’entusiasmo di agire per il bene di chi spesso è terrorizzato da ciò che sta vivendo

E questo lo posso toccare in questi giorni con mano, personalmente. Questa tremenda emergenza è rimasta una sorprendente lezione: si è imparato a dare tutto se stessi. Disponibilità, vigilanza, qualità del contatto, amabilità e competenza sono rimaste come un’onda lunga nel DNA del personale dei reparti. «Se vuoi essere grande, sii intero!» raccomandava J. Pessoa, uno scrittore lusitano. Invito che si ritrova qui, vissuto tra le corsie, che un tempo erano vere trincee di combattimento.

Vi coglierà di sorpresa anche un’altro elemento. Questo suggestivo omaggio alle equipe mediche è stato offerto dalla comunità musulmana di Jesi, in particolare, dal Centro culturale islamico «Al Huda». Volendo, infatti, partecipare con un gesto allo sforzo inedito del mondo sanitario nell’emergenza Covid, si è pensato a una traccia di memoria all’entrata dell’ospedale. Con una dedica, sottostante: « La Comunità islamica si inchina con profonda riconoscenza per i sacrifici compiuti ».  Ecco la storia di una grande idea, per non dimenticare. «La memoria è un tesoro – ripeteva Cicerone – e il custode di tutte le cose». Sì, per non disperdere il valore della realtà, l’intensità di certi momenti vissuti. E la possibilità di legami che uniscono le esistenze. Come qui.

Ma la memoria – vi potrà commentare Saramago, premio Nobel di letteratura – è legata alla responsabilità. «Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo. Senza responsabilità, forse, non meritiamo di esistere ».

Proprio in quest’ospedale, infatti, si fa memoria della ammirevole responsabilità di un medico e microbiologo illustre, originario dei dintorni, Castelplanio. Volontario appassionato da giovane in  associazioni come Mani Tese, Unitalsi… si impegnò, poi, in attività che lo portavano ad operare in Africa e in Asia. Fu lo scopritore della famosa Sars, tremenda epidemia scoppiata nel 2002.

Scriveva di suo pugno nel diario, che teneva con sé: «Sono cresciuto inseguendo il miraggio di incarnare i sogni. Ho fatto dei miei sogni la mia vita e il mio lavoro». Il destino si incaricò di farne anche la sua morte. Vittima, lui stesso, infatti, un giorno della Sars. L’ospedale ne porta alto, con onore, il nome: Carlo Urbani. L’era dei missionari non è finita, per davvero!

Renato Zilio