«Ipertrofia dell’ego». Ecco due parole grosse, per dire la pandemia invisibile, che già da molti anni viaggia tra di noi. In parole semplici: il senso irrinunciabile dell’ego. Il culto dell’io. L’impossibilità di cedere terreno all’altro. Lo si nota in tutti i campi. Come una gramigna ha intaccato qualsiasi terreno. Un virus che, sornionamente, è entrato nel nostro corpo, nella mente, nel sangue, nelle famiglie e nelle abitudini. Con questa malattia l’altro non esiste. Viene dopo di me. E’ spesso un rivale, un concorrente, un attentatore. Sì, della mia incolumità. Incrollabile questa, solida, per nulla scalfita dall’altro. La mia identità diventa una fortezza. Anche a livello comunitario.

Come missionario, ho speso quarant’anni all’estero. Ho toccato anche i confini dell’Oriente, proprio dove l’ «io» non si coltiva in maniera ossessiva, come da noi, anzi… e la felicità si raggiunge spegnendo ogni desiderio personale. È l’arte antica della serenità. Si coniuga splendidamente con quella del respiro, a cui spero di dedicare i miei ultimi anni. L’arte dell’accogliere e del dare la vita attraverso semplicemente il soffio. Ed è il segreto della pace interiore.

Ma, tornando in Europa, ricordo gli anni passati in Francia, vario tempo fa. Era una delizia assistere a dei dibattiti alla TV. Mai un interlocutore si scagliava, interrompeva o si alterava con un altro interlocutore. Elegantemente, come prendendo i guanti, ne smontava semplicemente le tesi. Tutto restava a livello della «mens». L’altro esiste. Non lo si sopprime insieme al suo progetto.

Questo virus viaggia perfino… nel traffico. Ricordo ancora lo stupore da qualche anno, quando viaggio in Italia, non c’è auto che segnali la direzione da prendere, se andare a destra o a sinistra… Si viaggia come se si fosse unici al mondo. Ad un certo punto una frenata e l’auto di fronte scompare a destra. L’altro, da informare, da avvertire… non esiste.

Quando mi trovavo in Africa, camminando a piedi, mi capitava di incrociare, a volte, un gruppo di giovani e poter scambiare due parole, un saluto… Subito ero accerchiato da una troupe simpatica di quei giovani pieni di interesse, di domande e curiosità. La stessa cosa mi succedeva pure in Cina. Ritornando, poi, al mio paese veneto, camminando, mi succede di conservare l’abitudine e di arrestarmi… «Ma chi sei, che cosa vuoi?!» mi sento subito apostrafare, in modo antipatico, da qualcuno del gruppo. Abituati all’ego o al clan, l’altro non esiste. Se non come un estraneo. Un intruso. Sì, un’altra umanità… dove il nostro virus imperversa.

Penso ancora, sorridendo, al Centro di accoglienza di Ecoublay, alla periferia di Parigi, dove lavoravo per anni, con gruppi di giovani di varie nazionalità, come italiani, spagnoli, portoghesi o marocchini. In ufficio, vi era già preparato un pacco di lettere, pronte in bella scrittura per rispondere «ci dispiace, ma…» a eventuali domande di assunzione, che ci pervenivano spesso. Il giorno stesso si impostava la risposta… I giovani disoccupati francesi, infatti, per meritarsi il reddito di cittadinanza devono fare ogni mese almeno tre domande di lavoro documentate… Poi, a mia sorpresa, mi accorgevo che in Italia, invece, una lettera, un documento inviato non riceve nessun segno di risposta. Nessuna reazione. Come se si fosse gettato qualcosa in un pozzo. Come se io non esistessi. L’ipertrofia dell’ego, infatti, ha intaccato non solo singoli, ma anche istituzioni, aziende… Non ci si degna di un cenno di risposta. Troppo sicuri di sè. L’altro non esiste.

Adoravo, invece, vedere nella cultura francese quell’abitudine – vero «esprit de finesse» – di inviare sistematicamente un biglietto con «simplement deux mots», due parole per dire di avere ricevuto qualcosa. Un biglietto per dire «un petit merci». Cioè un «grazie» per aver passato una serata insieme, un evento condiviso … Questo delicatissimo feedback lo trovo particolarmente umano e rispettoso dell’altro. Da noi «passata la festa, gabbato lo santo». Perfino con i giovani, all’estero, esisteva quella che chiamavamo «la risonanza». Un feedback semplice, fecondo, stimolante. Dopo un evento o un incontro li si invitava a dire quello che restava nel cuore, nella mente. È, in fondo, “l’arte della valutazione”, che prepara uomini di domani. Sì, perché si impara a «pesare» le situazioni, gli uomini o gli eventi con spirito critico e a farlo in gruppo. Perché «il gruppo è più intelligente del singolo».

Nei vari anni passati a Londra, invece, ricordo la sopresa dei giovani italiani, che arrivavano di fresco e mi raccontavano, sperduti per la città, come delle persone, spesso proprio degli africani o dei caraibici, che con un fare gentilissimo li accompagnavano perfino alla stazione bus o all’indirizzo cercato… prendendo tutto il loro tempo. O la sorprendente domanda di rito che si incontra subito in tutti gli uffici: «Can I help you?» Gradevolissima maniera di mettersi a vostro servizio. Vi fa esistere.

Per il nostro virus dell’ego, in fondo, papa Francesco ci indica una terapia efficace, missionaria. In sole due parole: «prendersi cura». Dell’altro, dello straniero, del fragile. E, paradossalmente, ci invita a cancellare il termine «gli altri». Per imparare a dire semplicemente «noi». Non esiste “noi” e “gli altri”. Gli altri fanno parte di noi stessi. Ed è qualcosa che – se capito – sa di miracolo, per davvero!

Renato Zilio