Ho preso in mano il telefono, giorni fa, per salutare qualche famiglia dei nostri missionari. Quelli partiti – e seppure abituati ai viaggi – per quel « lungo viaggio senza valigie » e senza ritorno… Vivono, ormai, nel mistero dell’abbraccio di Dio. Far sentire, così, ai loro familiari come siano parte, essi stessi, della nostra famiglia scalabriniana. E farlo da Loreto. Dove si venera non un’apparizione, nè un’immagine della Madonna, ma una « casa ». La casa di Maria : una vera icona. Perchè parlare di casa, di trovare casa, di sentirsi a casa là, dove il destino vi porta,… è il sogno più grande di un migrante. E « casa » dice sempre famiglia e il suo tesoro, lo spirito di famiglia. Spirito inclusivo, per eccellenza. Spirito del « noi ».

Al telefono, la voce di Giovanni Miazzi, il fratello di padre Antonio. Era tornando a casa dall’Australia, un giorno, che il missionario perdeva la vita in India, in un incidente aereo. Aveva solo 30 anni. Il ritratto, fatto dal Superiore generale, Larcher, non poteva essere più bello: « ottimo sacerdote e religioso, vero missionario, egli ci lascia esempio di vita piena, austera, sacrificata, degna del più vero ideale scalabriniano ». Giovanni, ora come allora, ha sempre un nodo alla gola, un’amarezza dentro, pensando a quel funerale di Antonio, nel seminario di Bassano. Proprio là, dove era cresciuto, giovane seminarista, carico di speranza e di promesse. Parlarne gli fa tanto bene. Le ferite profonde vanno sempre accarezzate.

A Angelo Ferrari, in Piacenza, fratello di padre Amerio, pare sempre di rivederne il volto dappertutto. Con quel mezzo sorriso sornione negli occhi, un carattere amabile e frizzante. Sì, assomigliava al vino di queste terre, il rosso Gutturnio, fresco e pétillant. I ricordi, allora, spumeggiano, il cuore si apre… A un certo punto, la voce al telefono non si ode più. L’emozione ha preso ormai il sopravvento.

Della famiglia di padre Pietro Celotto un nipote si mostra fiero del loro missionario, per le sue tante peripezie e il coraggio dato a piene mani. Come quando, a sessant’anni suonati, approda nella metropoli londinese, senza sapere una sola parola di inglese. Lui stesso ne restava ammirato, come il viverci per tanti anni. Poi, dal cimitero del paese il giovane invia il giorno stesso la foto della sua tomba. Ordinata, pulita, fiorita di rosso perfino in pieno inverno (per la cura di due donne)… proprio come era padre Pietro. Sicut in vita, sic in morte.

Liberato Properzi si affretta a comunicarvelo, dopo esserci stato di persona. A Boston, nel quartiere Sommerville, c’è « Properzi way », una via dedicata allo zio, padre Nazareno, da Corridonia, borgo antico delle Marche. Ne è  fiero, respira mondo. Ma i suoi confratelli ne avevano fatto già un monumento, eleggendolo provinciale per una dozzina d’anni, capitolare, economo, e dandogli responsabilità di parroco fino all’ultimo giorno. Superiore prudente e illuminato, spirito dolce e talento  pittorico, un vero riflesso dell’animus delle Marche, regione dal paesaggio invidiabile, tutto colline, antichi borghi e sapore d’infinito.

Lamberto Minchiatti, invece, dalla terra umbra ricorda le tante volte che fu in America per visitare padre Francesco, lo zio. Occasioni straordinarie per aprirsi a un altro mondo. Lo ha voluto accanto, poi, nella sua tomba di famiglia, riportato da laggiù. Perchè padre Francesco adorava la sua terra. Quando era qui in vacanza, si metteva in giardino, con un paesaggio incantevole, lasciandosi sfuggire: « Deve essere proprio così il paradiso ! Anche se, per me prete, non è una certezza, ma una speranza… » Da qui, « Checchino » era stato strappato a undici anni dal parroco stesso, convinto della sua chiamata, per accompagnarlo in un lunghissimo viaggio in treno all’Istituto dei missionari scalabriniani di Bassano (Vi), appena aperto. Il seminario di Perugia chiedeva una retta, cosa impossibile per la famiglia. Sognava di terminare i suoi anni a Loreto, all’ombra del santuario. Ritornare, finalmente, cosí, alla sua terra e alla sua pace.

Donato Cogo vi parlerebbe per ore del loro « Bepi », come lo chiamavano tout court. A cominciare da quando padre Giuseppe tornava dall’America in clergyman, mentre la mamma, contrariata, pretendeva la veste talare. Arrivava, facendo felici i fratelli con la prima radiolina o il primo rasoio elettrico, portato da oltreoceano. Se lo ricordano ancora da ragazzi, quando bisognava andare a pescare i « marsoni » nei fossi, che in casa, poi, si cucinava per mettere qualcosa sotto i denti. Ma anche quando fece di tutto per imbarcare papà e mamma in aereo e portarseli a Roma in udienza, davanti a Paolo VI. Masterpiece, un colpo da maestro ! Il suo segreto ? « Essere allegro, evitare e superare i conflitti » confessa Donato, sintetico. Arte appresa in famiglia, da piccolo, con tanti fratelli, altrettante baruffe. « Ora, è andato avanti ! » conclude da vero alpino.

Luigino Crevani vi racconterà come il piccolo borgo di Romagnese (Pavia) –  settecento anime in tutto – entrava in fibrillazione, alla sola notizia del prossimo arrivo di padre Decimo dall’America. Allora, ognuno aveva una santa messa da fargli dire. Ma lui non voleva offerte. Solo un caffè, che spesso diventava una cena. La convivialità, é vero, non ha prezzo.

A Vergiate, nel lombardo, Antonio, il nipote di padre Silvano Guglielmi vi dirà il piacere di andare a prenderlo, immancabilmente, alla stazione ogni volta che capitasse. La chiesa, allora, di domenica si riempiva, piena zeppa. Perchè lui portava sempre novità : era come un’ondata di vento fresco. Le cose le sapeva presentare con garbo e freschezza, da professore puntiglioso, direbbero i suoi alunni in seminario. E con quel taglio sociale – aggiunge il nipote – che spesso altri preti non hanno per nulla ! Allo zio muratore, che non andava a messa, assicurava già il paradiso, guadagnato dal suo duro lavoro… 

Flavia Zanotto a Nove, attende i suoi 90 anni per maggio. Ma, intanto, accennarle del fratello Padre Francesco la fa sognare. Pensa a quella sua imperturbabile saggezza che sapeva mostrare a tutti, quasi dall’alto di un pulpito. Signorilmente. E quella dolce calma spirituale, che sapeva sempre trasmettere. Dote di un capitano di transatlantico – come quello ormeggiato in riva al Brenta, il nostro immenso seminario minore a Bassano, di cui era rettore – con cui noi, battaglione di seminaristi degli anni ‘60, facevamo conoscenza già dalla verde età di 11 anni. Dove l’avesse preso questo talento resta ancora un mistero.

Forse, in fondo, tra le opere di misericordia corporale o spirituale c’è anche questa, per noi. Quella di coltivare i contatti con le famiglie dei nostri missionari defunti. Ne provano una gioia incredibile. Anche per questo li sentono ancora vivi.
Con emozione.
R.Z.