Padre Enrico Morassut nasce e cresce a Vicenza, ma ha tutto il sapore di un altrove. L’energia, la risata esilarante, la decisione, la resistenza, l’erranza. Forse, tutti cromosomi friulani. All’origine, una lontanissima storia di emigrazione: il nonno Antonio, friulano, a Bucarest come giardiniere del console, vi incontra Libera Italia, giovane badante vicentina, classe 1866. Così, l’emigrazione porterà il missionario lontano, in Francia, tra le numerose comunità italiane, poi in Lussemburgo, e infine in Canada. Ovunque, per i nostri italiani emigrati. Ma volentieri si rifugia nel «Fogolar furlan» l’associazione friulana, che all’estero incontra dappertutto. Naviga nelle feste, negli incontri, i cori di montagna, le celebrazioni e i giornali delle nostre comunità come un pesce nell’acqua. Giancarlo, il fratello, ricorda come fosse ieri i suoi brevi ritorni a Vicenza, per respirare finalmente aria di casa. «Non si parlava che di montagna, di cime e di sentieri da percorrere» si lascia andare con nostalgia. «Le dolomiti erano il suo regno. Lo vedevi arrampicarsi come uno stambecco nel suo ambiente naturale!». E quando salì le montagne per sempre, per incontrare per davvero Dio, tutta la corale era là per accompagnarlo con quel tenero e commovente canto dei monti «Signore delle cime» di Bepi De Marzi, altro talento vicentino. Non ci poteva essere conclusione più bella. E più vera.

Solo due parole per definire un missionario scalabriniano di Rossano Veneto. Viveva di passione e di compassione. Appassionato di una cittadina francese, immersa nelle nebbie del Nord, Herserange, un paese come tutti, ma che non abbandonerà mai. Perché si trova nel cuore del mondo siderurgico-minerario della regione, dove si sviluppa un’industria di primordine nel dopoguerra. Strutture enormi, fabbriche grandiose invadono e stravolgono tutta la zona. Migliaia di italiani si riversano in questo bacino come tanti altri stranieri. La classe operaia è forte, il pradronato è onnipotente. Quasi un padreterno sulla terra, tutto dipende da lui: casa, famiglia, scuole, trasporti e loisirs. Se ti curvi è possibile avere questo, se manifesti un dissenso ti si spoglia di tutto. Antoinette, una pasionaria ottantenne, ricorda ancora come con le altre operaie prendeva in mano la fabbrica di ceramica, – il vicino Longwy ne era una eccellenza – quando il padrone voleva chiuderla. Processi, picchetti di resistenza, solidarietà tra famiglie. Era come essere in guerra: stesso spirito combattivo, stesso interesse comune per la vita, per il pane e il futuro. E il missionario, padre Eliseo Marchiori, era sempre accanto. Era per lui come una missione: sostenere questi operai, – della siderurgia, della miniera o della ceramica – con i loro dirittti e le loro speranze. Appassionato per l’uomo e per la sua dignità. «Siamo tutti figli di Dio – tuonava, deciso – perché, allora, una vita da schiavi per molti? »

E poi, alla sera, lo trovavi a coltivare il suo pezzo di orto, come tanti altri operai, sul «terril», la collina maledetta, fattasi pian piano dalla montagna di detriti che usciva dalle viscere della miniera. Orgoglioso di mostrarvi le sue melanzane, i pomodori, le verdure coltivate sopra quella collina. Dello scarto, se ne prendeva cura. Quasi una parabola della sua vita: prendersi cura degli ultimi. Accanto al suo, altri piccoli orti di altri operai come Mohamed, Alì, Paulo, … marocchini, spagnoli, portoghesi. Ritrovarsi lassù, era come una grande famiglia. Un pezzo di umanità. Ma coltivava anche una dote rara in ambienti duri come quelli: la compassione. Un’empatia particolare, interiore, con qualsiasi migrante, a qualsiasi cultura o religione appartenesse. Herserange l’aveva formato a un’apertura di mente e di cuore impensabile altrove. Nella sua vecchia cucina operaia incontravi spesso per cena o per pranzo qualche rumeno o pakistano o siriano, sbarcati da poco a Herserange e un po’ perduti. Da lui del buon vino, un enorme formaggio, del pane e una grande cordialità erano sempre messi sulla tavola. Quasi per dirvi: «Siediti, si mangia qualcosa assieme!» E non si poteva immaginare il piacere del missionario nel vedervi finalmente seduto e obbediente all’invito. Per parlare con passione di tutto e di ogni cosa, di filosofia e di botanica, di teologia e di politica a cuore aperto e con parola franca. Ma quel giorno, il vescovo non credeva ai propri occhi. Uscendo da una chiesa gremitissima, c’era fuori altrettanta folla se non di più… Era per salutare per sempre il loro «père Elysée». Nel giorno del suo addio. Per dire grazie di uno sguardo o di una parola accolta. Da un uomo vero. Da un fratello di tutti.

Renato Zilio