Mi sentivo quasi in imbarazzo. Vestito, ormai, per la santa Messa, attendevo in un angolo della sacrestia. Era quest’estate, un martedì qualsiasi. La voce del sacrestano un po’ concitata al telefono ricorda al parroco che il cappellano non si è presentato all’eucarestia del mattino. E mancavano, ormai, pochi istanti… Eroicamente, dopo una manciata di minuti, ecco il parroco stesso per celebrare. Qualche tempo prima, situazione simile. Da una decina di minuti fuori tempo, ecco arrivare un sacerdote, tutto rosso e trafelato. Lo aiuto fraternamente ad abbigliarsi, mentre squilla ansiosa la campanella… Sembra, pertanto, che il missionario in questo paese del Veneto, sia una presenza invisibile. O, forse, inutile. E mi ripeto dentro di me : «Come sarebbe bello essere contagiati dal virus salutare della missionarietà!» Cioè, della preziosità di chi viene da fuori e da lontano. Come un missionario, l’immagine stessa della «Chiesa in uscita» per le tante frontiere affrontate al di là della propria terra, della propria gente, delle proprie usanze, della propria lingua e della propria storia… Passare dalla «logica dell’identità e dell’identitario», del « siamo tra di noi » che troppo ci appassiona, alla «logica dell’alterità», dell’ospite. «Lo straniero è come un fratello, che non hai mai incontrato» recita un proverbio africano. È un volto diverso, una parola nuova, un messaggio differente, una testimonianza viva da altrove. Sì, sono queste le vere sorprese di Dio.  Lo si vive giustamente in Africa o nell’Oriente, quando si parla di ospitalità.

Missionario all’estero per quasi quarant’anni, accompagnando comunità di emigranti italiani e non solo, ricordo sempre volentieri l’esperienza vissuta nella «più piccola delle grandi capitali», come la città ama definirsi : Ginevra. Specchiata attorno ad un lago superbo, è un porto di arrivo (e lo fu perfino di asilo politico) per migliaia di italiani emigrati, a ondate differenti, a partire dai primi ‘900, alla frontiera tra Svizzera e Francia. Molti, poi, vi lavorano attualmente nei 200 Organismi internazionali, come ONU, Croce Rossa… o al CERN, eccellenza della fisica europea. Ricordo che a volte si presentavano alla nostra chiesa italiana, a pochi passi dal lago, dei sacerdoti provenienti dall’Italia, ospiti di qualche parente. Si presentavano di domenica, anche all’ultimo momento, prima della Messa. «Padre, posso concelebrare con lei?» mi sussurravano.  «Senz’altro, ma presiedi la celebrazione!» era spesso la risposta, togliendomi allo stesso tempo la casula del presidente d’assemblea. Alle delicate rimostranze per troppo onore, c’era sempre… uno stratagemma; li faceva subito crollare. «Guardi, è qualche anno che sono qui, ormai sono stanchi della solita voce…». E la celebrazione, così, era sempre un momento di grazia! Non solo per la testimonianza di come si vive il vangelo in Italia, nella loro parrocchia, ma anche per l’accoglienza di un ospite. Ciò prendeva i colori della gratuità. E, in fondo, della fraternità. E tutto questo faceva crescere una comunità, la nostra, e le dava un respiro nuovo.

Come quando, a Messa, intravvedo uno straniero, un nigeriano o un siriano nell’assemblea, gli chiedo discretamente un aiuto… È al momento del «Padre nostro». Quando tutta l’assemblea termina, con la cadenza di una cavalcata, la bella preghiera, leggermente lo straniero si avvicina al microfono, per recitare subito, il «suo» Padre nostro. Con l’emozione che lo prende, senti scorrere in arabo «Abana lazi fissamauet…» tra il silenzio pietrificato dell’assemblea. Una vera sorpresa. Un altro figlio di Dio !

In fondo, questo tempo di pandemia ci aiuta ad uscire da una Chiesa programmata, ben organizzata, fatta di incontri, di funzioni e di programmi prestabiliti. Senza sorprese, come una macchina ben oliata. Ci insegna, forse, ad essere più attenti allo Spirito e al suo soffio, che viene e va dove vuole. Più vigilanti sul senso della missionarietà, sul valore dell’ospitalità di chi è differente. A trovare, responsabilmente, tempi e luoghi alternativi, per incontrare Dio. Non esclusivamente lo spazio di una chiesa. Forse, anche la nostra casa. Senz’altro, il cuore dell’uomo : primo luogo dell’incontro. Lo si era, forse, dimenticato. Per cui qualsiasi omelia che non parli al cuore, non cambierà le cose, tanto meno le persone. Perché è là dove Dio si presenta.  Portandovi il virus benefico dell’imprevisto e della sorpresa. Dell’apertura all’altro. Della missionarietà. Sì, il senso dell’ospite come, pure, il gusto della fraternità. Ma soprattutto, la gratuità. Insieme alla misericordia, è proprio questa il vestito più bello, con cui Dio si adorna. Per incontrare gli esseri umani, che siamo noi.

Renato Zilio
Direttore Migrantes Marche