L’Etiopia al centro della crisi nel Corno d’Africa

Il CVM (Comunità Volontari per il Mondo) organizza un incontro sulla situazione in Etiopia. L’incontro si terrà domenica 28 novembre alle ore 15:00 a Porto San Giorgio, presso la Sala Imperatori.

Sarà possibile partecipare all’evento anche online tramite la piattaforma Zoom, previa iscrizione al link https://tinyurl.com/2w5jzt77

Scarica il pdf dell’incontro:

Macerata: scuola missionaria diocesana

Quest’anno il frutto della Scuola diocesana Missionaria non sono stati i viaggi e le visite alle diverse realtà missionarie con le quali siamo in contatto. Abbiamo però promosso esperienze di condivisione e vicinanza a delle realtà della nostra diocesi. Una di queste è stata la condivisione ed il servizio al Centro di Ascolto e di Prima Accoglienza che ospita persone migranti e altre con diverse difficoltà.

L’apice di questa esperienza l’abbiamo vissuta con una cena insieme, assaggiando pasti di diverse tradizioni nazionali. Con alcuni di questi amici abbiamo anche visitato il Palazzo Buonaccorsi di Macerata che ospita il prestigioso Museo della Carrozza e tanti altri cimeli della storia del nostro territorio maceratese … anche questo crediamo possa aiutare ad una vera integrazione.

Un ringraziamento particolare va’ alla vicesindaco Francesca d’Alessandro per la visita a Palazzo Buonaccorsi in collaborazione con il Centro di Ascolto e di Prima Accoglienza di Macerata

La conoscenza della storia e delle tradizioni locali rafforza l’incontro e l’integrazione!

Don Sergio Fraticelli

Fano – Campo Missionario Diocesano 2021

Dal 18 al 24 luglio si terrà il Campo Missionario Diocesano, organizzato dal Centro Missionario della Diocesi di Fano Fossombrone Cagli Pergola in collaborazione con la Pastorale giovanile diocesana, la Caritas diocesana, l’Ufficio diocesano Migrantes, i missionari Comboniani e i missionari Saveriani, che quest’anno ha come tema “Tessitori di fraternità”. Anche quest’anno i partecipanti vivranno insieme i tre momenti tradizionali del campo: il lavoro, che sarà svolto la mattina, a Villa Bassa Prelato, la formazione accompagnati dai Missionari Comboniani con Padre Giorgio Padovan, ma non mancheranno nemmeno i Saveriani e la festa, la sera, sempre a Villa Bassa Prelato.

Abbiamo chiesto a Lorenzo Lazzeri e Sebastiano Lucarelli, entrambi della parrocchia di San Pio X, di raccontarci il motivo che li ha spinti a fare questa interessante e bella esperienza.

Lorenzo. “Ho deciso di partecipare al campo missionario perché ho vissuto quest’esperienza altre 2 volte e mi è piaciuta molto, soprattutto perché si vengono a creare una bella atmosfera e un bel legame tra tutti i partecipanti. Per una settimana si vive in una sorta di isola felice. Non è la prima volta che partecipo, ma quando  nel 2019 mi è stato chiesto se avessi voluto iniziare a frequentare il campo non ci ho pensato due volte. Nel prendere questa decisione mi ha aiutato molto l’aver ospitato il CMD nella nostra parrocchia e l’aver potuto assaporare per un giorno l’atmosfera del campo. Dall’esperienza di quest’anno mi aspetto ancora più entusiasmo e più voglia di fare da parte di tutti, viste le difficoltà che abbiamo vissuto durante quest’anno e mezzo. Questo campo sarà un piccolo ritorno alla normalità dopo quello dell’anno scorso che si è dovuto svolgere in modo diverso rispetto al solito. Tre cose che porterò nel mio zaino sono il libretto del campo, la maglietta del CMD e ovviamente tanta voglia di imparare cose nuove e di mettermi al servizio degli altri. Una cosa che non porterò sicuramente, invece, è il telefono; durante il campo non ce n’è bisogno, per due semplici motivi: si ha tutta la giornata impegnata in altro modo e “disintossicarsi” per una settimana non fa altro che bene”.

Sebastiano. “Ho deciso di partecipare al Campo perché negli scorsi anni ho avuto delle bellissime esperienze che mi hanno permesso di crescere e di avvicinarmi a realtà che non conoscevo o che mi erano distanti attraverso delle testimonianze molto interessanti e coinvolgenti.  In passato ho preso parte a due campi, il primo nel 2019 e il secondo nel corso 2020, entrambi i campi sono stati delle esperienze in cui mi sono divertito insieme tante splendide persone. Da questo campo mi aspetto un’esperienza che proprio come gli altri anni mi permetta di riflettere, di crescere attraverso diverse testimonianze e allo stesso tempo mi aspetto  anche di divertimi e di conoscere tante nuove persone. Nel mio zaino non mancheranno sicuramente la maglietta del campo, il libretto campo e tanto entusiasmo”.

Per maggiori informazioni e per il programma dettagliato scarica il pdf di seguito:

I nuovi missionari

Per qualche giorno sono ricoverato all’ospedale di Jesi, una modernissima struttura, fuori città, su una altura collinare. Tutt’attorno, vigneti del rinomato «verdicchio», – il bianco di Jesi dalle tonalità verde-limone – si distendono su e giù per i colli. Sono solamente da ammirare… perché gli ospiti qui all’ospedale sono trattati rigorosamente ad acqua!

Ma la vostra sorpresa più grande avviene nella hall di entrata. Centinaia di occhi dietro una mascherina chirurgica vi osservano… una maxi-foto, plastificata, enorme, che dal pavimento sale all’altissimo soffitto. Venne inaugurata nella tarda primavera 2020. «La pandemia Covid ha rivoluzionato ogni nostra modalità di contatto interpersonale, riscoprendo il linguaggio degli occhi» recita una didascalia, Sono, infatti, gli occhi del personale medico del Pronto soccorso e dei reparti Covid. Si è voluto immortalarli così. E sono i nostri nuovi missionari.

Seguono, poi, in questo immenso poster altre considerazioni. «Siamo rimasti colpiti dalla bellezza di alcuni sguardi, di solito neanche considerati» continua il testo. «Occhi scintillanti ad inizio turno, più opachi al termine, sempre vivi ed illuminati dall’entusiasmo di agire per il bene di chi spesso è terrorizzato da ciò che sta vivendo

E questo lo posso toccare in questi giorni con mano, personalmente. Questa tremenda emergenza è rimasta una sorprendente lezione: si è imparato a dare tutto se stessi. Disponibilità, vigilanza, qualità del contatto, amabilità e competenza sono rimaste come un’onda lunga nel DNA del personale dei reparti. «Se vuoi essere grande, sii intero!» raccomandava J. Pessoa, uno scrittore lusitano. Invito che si ritrova qui, vissuto tra le corsie, che un tempo erano vere trincee di combattimento.

Vi coglierà di sorpresa anche un’altro elemento. Questo suggestivo omaggio alle equipe mediche è stato offerto dalla comunità musulmana di Jesi, in particolare, dal Centro culturale islamico «Al Huda». Volendo, infatti, partecipare con un gesto allo sforzo inedito del mondo sanitario nell’emergenza Covid, si è pensato a una traccia di memoria all’entrata dell’ospedale. Con una dedica, sottostante: « La Comunità islamica si inchina con profonda riconoscenza per i sacrifici compiuti ».  Ecco la storia di una grande idea, per non dimenticare. «La memoria è un tesoro – ripeteva Cicerone – e il custode di tutte le cose». Sì, per non disperdere il valore della realtà, l’intensità di certi momenti vissuti. E la possibilità di legami che uniscono le esistenze. Come qui.

Ma la memoria – vi potrà commentare Saramago, premio Nobel di letteratura – è legata alla responsabilità. «Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo. Senza responsabilità, forse, non meritiamo di esistere ».

Proprio in quest’ospedale, infatti, si fa memoria della ammirevole responsabilità di un medico e microbiologo illustre, originario dei dintorni, Castelplanio. Volontario appassionato da giovane in  associazioni come Mani Tese, Unitalsi… si impegnò, poi, in attività che lo portavano ad operare in Africa e in Asia. Fu lo scopritore della famosa Sars, tremenda epidemia scoppiata nel 2002.

Scriveva di suo pugno nel diario, che teneva con sé: «Sono cresciuto inseguendo il miraggio di incarnare i sogni. Ho fatto dei miei sogni la mia vita e il mio lavoro». Il destino si incaricò di farne anche la sua morte. Vittima, lui stesso, infatti, un giorno della Sars. L’ospedale ne porta alto, con onore, il nome: Carlo Urbani. L’era dei missionari non è finita, per davvero!

Renato Zilio

Eucarestia e terra di missione

«Mah! Ormai mi ci sono abituata, non vado più a messa: c’é la TV.» Eleonora con i suoi sessantanove anni é schietta, rassegnata. É vero, questa pandemia ha portato il senso della rottura. Di una tradizione, di abitudini. Di una routine abituale.

Come missionario, mi sorprendeva sempre: “Padre, sapesse, ho perso la messa!” la prima cosa da dire in confessione. Come fosse il peccato più grande. Frutto di un’ insistenza da noi martellante, che all’estero non si riscontra. E l’odio, l’individualismo, l’indifferenza o la maldicenza, che spesso avvelenano l’esistenza degli altri…?!

Accompagnando comunità dei nostri migranti italiani all’estero, osservavo che per loro era quasi naturale questo movimento di sistole e di diastole, del disperdersi e del ritrovarsi e poi del disperdersi ancora… Sì, il movimento del cuore per un rito religioso, la santa messa. Non servivano raccomandazioni. In emigrazione, per qualsiasi religione, cristiana o musulmana, è prezioso rivedersi, ridire insieme la propria fede. E il proprio coraggio, dono di Dio. È come un riprendere fiato, per combattere. Perché per ogni migrante sulla terra esistere è combattere. Nulla di più.

Ciononostante, mi vengono spesso alla mente le parole di un missionario bresciano, padre Flaminio, quando era di ritorno dalla sua Valcamonica. “Sapessi quanto ho battagliato con i preti della mia terra! Mettono la messa dappertutto e ad ogni momento…perfino in cimitero! Automaticamente, come una routine!”

All’estero, in Europa, missione dove ci trovavamo, poche volte si celebrava l’eucarestia. Non, per esempio, all’occasione di funerali. Si celebrava, invece… il funerale! O unicamente il matrimonio, all’occasione dell’arrivo dei due sposi. Una celebrazione bella, viva, con canti, lettura della Parola di Dio, preghiere, testimonianze e gesti simbolici. I partecipanti, che spesso non erano solo cristiani, ma musulmani, non credenti o altro vi si ritrovavano benissimo. Anzi, alla fine, a volte, sommessamente, vengono a dirvi «grazie!».

All’inizio di un funerale, la persona più intima, – un figlio o un giovane nipote – va solitamente ad accendere dal cero pasquale un luce accanto al defunto. Nel silenzio generale, un gesto toccante. Per dire «grazie della luce di coraggio, di fede, di sacrificio o di tenerezza che hai acceso nel nostro cuore. In nome di Cristo». Le letture vengono proclamate da amici o familiari. Alla fine, sempre qualcuno della famiglia o del suo entourage prende la parola: breve, toccante, preparata con cura. Commossa. Anche perché, spesso, è la prima volta che gli dicono “grazie”. E poi tutti ci si mette in fila per passare, così, davanti al defunto per un gesto personale, tenero, di benedizione con l’acquasanta o un gesto di riconoscenza sfiorando la bara. Una celebrazione corale, dove ognuno, come in un mosaico, mette qualcosa di suo. Ed è sempre un miracolo che si rinnova. Sì, momenti unici di testimonianza. E, soprattutto, di speranza. Aver messo, così, insieme, nelle mani di Dio quella vita che Lui, un giorno, aveva affidato alle nostre mani.

Lo stesso lo si vive al matrimonio, naturalmente in un clima diverso, vivo e gioioso. Ed è sempre la Parola di Dio che convoca, dicendo quanto Dio ama il suo popolo ed ognuno di noi. Senza misura e senza condizioni. Immagine incoraggiante per chi si sta impegnandosi sul cammino dell’amore. E al suo vero prodigio: la comunione delle differenze. Questa fa ripetere ogni giorno parole impensabili, incredibili: «La tua differenza è la mia ricchezza!»

Ma anche le celebrazioni comunitarie del perdono hanno lo stesso timbro, la stessa forza di trasformare gli animi. Ed è alla sera, dopo cena, un grande momento di preghiera insieme all’occasione dell’Avvento, della Quaresima… Si ascolta insieme l’invito di Isaia, la profezia di Gioele, l’umiltà dei salmi, le raccomandazioni del Signore, si canta e si prega… Si resta insieme nel silenzio, porta privilegiata al mistero di Dio. Poi si incontra in piedi uno dei sacerdoti, diritti in piedi, distribuiti lungo tutta la navata della chiesa. Per mettere le proprie mani nelle sue e confidargli brevemente il nostro peccato. Riceverne, finalmente, il perdono. Uscendo, il suono d’organo con tutti i suoi registri, squillando alla fine della celebrazione, non l’avete mai sentito così forte, libero e potente. Per dirvi tutta la gioia di Dio.

Renato Zilio
Autore di «Dio attende alla frontiera» EMI

La Santa Casa ospita due importanti eventi missionari

La Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato quest’anno, in Italia, si celebrerà tra le pareti della «Santa Casa», nella Basilica Pontificia di Loreto, domenica 26 settembre. Questo ricorderà a tutti la passione da sempre di papa Francesco per l’avventura dei migranti. Come fu la sua. Coloro, cioè, che si muovono sui passi di Abramo e con la sua stessa speranza. Alla ricerca, instancabilmente tra mille peripezie, di dignità. Di vivere umanamente, pienamente. Ma ricorderà, anche, il valore della «casa». il senso autentico della casa, del sentirsi a casa, dell’accoglienza. Ed è la sfida dei nostri giorni, per una società spesso chiusa e ripiegata in se stessa.

A Loreto, assieme a questo evento celebrativo, se ne avrà un altro, più formativo. Sarà il Corso di Alta Formazione per tutti i direttori Migrantes diocesani d’Italia, organizzato dalla Migrantes nazionale, ma anche per tutti coloro che sono sensibili alla problematiche migratorie. Si svolgerà nello straordinario e suggestivo contesto della Basilica e dei suoi annessi. Il tema sarà: «Costruire e custodire la casa comune», nei suoi più vari aspetti di realtà personale, cittadina, ecclesiale, sociale e culturale. Si svolgerà dal 23 al 27 agosto. Prevede la partecipazione di insegnanti universitari, di testimonianze qualificanti, di laboratori di esperienze, ma anche di voci al di là del Mediterraneo, come quella del cardinale Cristòbal di Rabat (Marocco), una Chiesa di frontiera, coraggiosa costruttrice di ponti nel mondo dell’Islam e nel cuore dell’emigrazione. Sempre in nome del Vangelo. Stimolante sarà la giornata di visita al Museo dell’emigrazione marchigiana di Recanati (MEMA), – racconto commosso di ben 700.000 emigrati di una regione italiana piuttosto piccola, – la visita al tristemente noto Hotel House, un ghetto verticale di 17 piani per quasi 1.800 persone di 40 nazionalità differenti, ma anche luogo di testimonianze solidali come l’Associazione «On the road» in percorsi di integrazione o il medico di base, acquartierato all’ottavo piano di questo enorme condominio, con tutti gli ascensori da anni fuori uso.

Le Marche, insomma, terra di colline, di mare e di antichi borghi, per i partecipanti sarà un territorio da scoprire. Ma soprattutto da contemplare, da assaporare lentamente. «Viaggiare non è scoprire nuove terre, ma avere nuovi occhi» raccomanda Proust. Qui, dietro un colle o una siepe si può toccare l’infinito. Cioè il mistero dell’uomo e della sua avventura nell’incontro con altri uomini. Con altri mondi. Per questo, «il naufragar m’è dolce in questo mare».

Per le iscrizioni o per ogni altra informazione:
Migrantes Roma tel. 06 6617901 (Loretta)

Di seguito il programma del corso e la scheda di iscrizione:

Essere missionari, cioè coltivare l’alterità

«Ipertrofia dell’ego». Ecco due parole grosse, per dire la pandemia invisibile, che già da molti anni viaggia tra di noi. In parole semplici: il senso irrinunciabile dell’ego. Il culto dell’io. L’impossibilità di cedere terreno all’altro. Lo si nota in tutti i campi. Come una gramigna ha intaccato qualsiasi terreno. Un virus che, sornionamente, è entrato nel nostro corpo, nella mente, nel sangue, nelle famiglie e nelle abitudini. Con questa malattia l’altro non esiste. Viene dopo di me. E’ spesso un rivale, un concorrente, un attentatore. Sì, della mia incolumità. Incrollabile questa, solida, per nulla scalfita dall’altro. La mia identità diventa una fortezza. Anche a livello comunitario.

Come missionario, ho speso quarant’anni all’estero. Ho toccato anche i confini dell’Oriente, proprio dove l’ «io» non si coltiva in maniera ossessiva, come da noi, anzi… e la felicità si raggiunge spegnendo ogni desiderio personale. È l’arte antica della serenità. Si coniuga splendidamente con quella del respiro, a cui spero di dedicare i miei ultimi anni. L’arte dell’accogliere e del dare la vita attraverso semplicemente il soffio. Ed è il segreto della pace interiore.

Ma, tornando in Europa, ricordo gli anni passati in Francia, vario tempo fa. Era una delizia assistere a dei dibattiti alla TV. Mai un interlocutore si scagliava, interrompeva o si alterava con un altro interlocutore. Elegantemente, come prendendo i guanti, ne smontava semplicemente le tesi. Tutto restava a livello della «mens». L’altro esiste. Non lo si sopprime insieme al suo progetto.

Questo virus viaggia perfino… nel traffico. Ricordo ancora lo stupore da qualche anno, quando viaggio in Italia, non c’è auto che segnali la direzione da prendere, se andare a destra o a sinistra… Si viaggia come se si fosse unici al mondo. Ad un certo punto una frenata e l’auto di fronte scompare a destra. L’altro, da informare, da avvertire… non esiste.

Quando mi trovavo in Africa, camminando a piedi, mi capitava di incrociare, a volte, un gruppo di giovani e poter scambiare due parole, un saluto… Subito ero accerchiato da una troupe simpatica di quei giovani pieni di interesse, di domande e curiosità. La stessa cosa mi succedeva pure in Cina. Ritornando, poi, al mio paese veneto, camminando, mi succede di conservare l’abitudine e di arrestarmi… «Ma chi sei, che cosa vuoi?!» mi sento subito apostrafare, in modo antipatico, da qualcuno del gruppo. Abituati all’ego o al clan, l’altro non esiste. Se non come un estraneo. Un intruso. Sì, un’altra umanità… dove il nostro virus imperversa.

Penso ancora, sorridendo, al Centro di accoglienza di Ecoublay, alla periferia di Parigi, dove lavoravo per anni, con gruppi di giovani di varie nazionalità, come italiani, spagnoli, portoghesi o marocchini. In ufficio, vi era già preparato un pacco di lettere, pronte in bella scrittura per rispondere «ci dispiace, ma…» a eventuali domande di assunzione, che ci pervenivano spesso. Il giorno stesso si impostava la risposta… I giovani disoccupati francesi, infatti, per meritarsi il reddito di cittadinanza devono fare ogni mese almeno tre domande di lavoro documentate… Poi, a mia sorpresa, mi accorgevo che in Italia, invece, una lettera, un documento inviato non riceve nessun segno di risposta. Nessuna reazione. Come se si fosse gettato qualcosa in un pozzo. Come se io non esistessi. L’ipertrofia dell’ego, infatti, ha intaccato non solo singoli, ma anche istituzioni, aziende… Non ci si degna di un cenno di risposta. Troppo sicuri di sè. L’altro non esiste.

Adoravo, invece, vedere nella cultura francese quell’abitudine – vero «esprit de finesse» – di inviare sistematicamente un biglietto con «simplement deux mots», due parole per dire di avere ricevuto qualcosa. Un biglietto per dire «un petit merci». Cioè un «grazie» per aver passato una serata insieme, un evento condiviso … Questo delicatissimo feedback lo trovo particolarmente umano e rispettoso dell’altro. Da noi «passata la festa, gabbato lo santo». Perfino con i giovani, all’estero, esisteva quella che chiamavamo «la risonanza». Un feedback semplice, fecondo, stimolante. Dopo un evento o un incontro li si invitava a dire quello che restava nel cuore, nella mente. È, in fondo, “l’arte della valutazione”, che prepara uomini di domani. Sì, perché si impara a «pesare» le situazioni, gli uomini o gli eventi con spirito critico e a farlo in gruppo. Perché «il gruppo è più intelligente del singolo».

Nei vari anni passati a Londra, invece, ricordo la sopresa dei giovani italiani, che arrivavano di fresco e mi raccontavano, sperduti per la città, come delle persone, spesso proprio degli africani o dei caraibici, che con un fare gentilissimo li accompagnavano perfino alla stazione bus o all’indirizzo cercato… prendendo tutto il loro tempo. O la sorprendente domanda di rito che si incontra subito in tutti gli uffici: «Can I help you?» Gradevolissima maniera di mettersi a vostro servizio. Vi fa esistere.

Per il nostro virus dell’ego, in fondo, papa Francesco ci indica una terapia efficace, missionaria. In sole due parole: «prendersi cura». Dell’altro, dello straniero, del fragile. E, paradossalmente, ci invita a cancellare il termine «gli altri». Per imparare a dire semplicemente «noi». Non esiste “noi” e “gli altri”. Gli altri fanno parte di noi stessi. Ed è qualcosa che – se capito – sa di miracolo, per davvero!

Renato Zilio

Emigrano i semi sulle ali dei venti…

« Emigrano i semi sulle ali dei venti, emigrano le piante da continente a continente, emigrano gli uccelli e gli animali, e, più di tutti, emigra l’uomo, ora in forma collettiva, ora in forma isolata, ma sempre strumento di quella Provvidenza che presiede agli umani destini… »

Con queste parole di Giovanni Battista Scalabrini iniziava il collegamento streaming a Loreto, in preparazione della « Passione del Giusto ». Evento questo, che, sotto l’esperta regia di Mario, da 40 anni si tiene tradizionalmente nella settimana santa, con la partecipazione di alcune migliaia di persone. In questo tempo di pandemia non ha avuto luogo. Si tratta del dramma del Cristo, rivivendo però « le passioni » dell’umanità di oggi. Le vie crucis, il calvario e le morti innocenti dei nostri giorni. Quest’anno il tema era l’emigrazione, con la presentazione, via web, di un best-seller della EMI: « Dio attende alla frontiera ».

Nella mente degli ascoltatori sono rimaste alcune idee semplici. Fissate come chiodi, fondamentali. Emigrare è cambiare mondo. È provare a camminare nei sandali degli altri, come sempre duro e complicato… È vivere alla frontiera. Anzi, alle frontiere, al plurale. Delle nostre abitudini, delle tradizioni, mentalità, della nostra stessa lingua, di noi stessi…

Ma, la frontiera è « luogo teologico » che relativizza le costruzioni dell’essere umano, l’assoluto delle sue conquiste, la centralità dei suoi mondi. Così la sua ambizione, il suo segreto senso di onnipotenza. La frontiera è luogo per eccellenza dell’incontro e del confronto, dell’identità e dell’alterità che si danno appuntamento. Luogo del sapersi fare uomo con l’apporto dell’altro, del senso dell’incontro di un altro mondo, un altro cammino che si incrocia. In fondo, occasione di risvegliare la nostra indifferenza, chiusura o abitudini cristallizzate. Per « sprigionare », – sì, far uscire di prigione, – le nostre energie migliori, il valore della condivisione, dell’apertura. Costruire insieme all’altro un mondo più aperto e umano. Difficile sfida missionaria, sempre.

Emigrare è una ricerca, spesso dura, estenuante e caparbia, di due realtà vitali per un essere umano: il pane e la dignità. Sì, perché la terra da cui si proviene è indegna di farci vivere. E oggi sono migliaia i nostri giovani che partono all’estero, gridando in fondo all’anima proprio questo. Scremano la nostra terra delle sue promesse. Delle sue forze migliori.

Emigrare è una lotta, dura e amara. Dove ogni giorno è una sorpresa, ogni passo un’umiliazione, perché si è in casa d’altri. E tutto ve lo ricorderà, senza pietà… Ma è anche allo stesso tempo una danza. Lotta e danza, allo stesso tempo. Perché apre la mente e il cuore ad altri mondi, ad altri orizzonti, cambia il nostro ritmo. E tutto può trasformare e arricchire un essere umano. Che diventa, per miracolo, un essere di sintesi. Mettere insieme, così, le radici che ci hanno fatto crescere, e le antenne che ci fanno vivere e respirare. Ed è sempre un’arte rara. Con il tempo, ma molto tempo e pazienza, (lo sapevate?!) il migrante scoprirà di avere un cuore doppio del normale. Perché imparerà ad amare – sì, con lo stesso amore – la terra di origine e insieme la terra di accoglienza. Come quando si sentono degli emigrati siciliani o calabresi, che d’estate vengono a visitare la loro terra di origine : « Beh, sono passati come un soffio questi quindici giorni !… è ormai ora di tornare a casa ! » Cioè, all’estero. Dove hanno ricostruito la loro vita sulla terra degli altri. Ormai diventata la loro.

Iniziato con l’immagine dei semi, infine, l’incontro streaming termina con «la ballata del migrante». Con un pathos tutto suo è recitata da Rita, per raggiungere il cuore dei numerosi ascoltatori via web…

« Come un seme sono uscita dalla terra. Come un seme sono nata nella mia terra di povertà e di miseria. Vengo dal profondo Sud, dalla Moldavia, dalla Tunisia, dalle Filippine… e da tante altre terre. Sì, la mia terra è rimasta incollata all’anima della mia vita. Ma come un seme tenevo stretta tra le braccia tutta la speranza del mondo, ogni attesa dell’universo. Allora, come un vero seme il vento mi ha scossa, mi ha percossa, mi ha dispersa altrove. E ho attraversato il mare e l’oceano. Ho conosciuto l’esilio e la paura, il coraggio, il sogno e l’amicizia, la danza e la lotta vera. Ho conosciuto la speranza e le illusioni, il pianto e la preghiera. Come un seme il cuore mi è scoppiato. Sì, la mia vita è sempre impastata di morte e di rinascita, di fame e sete di dignità, di paura di vergogna e di nostalgia, di solidarietà nuove e di speranze mai finite…

E quante volte ho dovuto morire: io non sono che un seme nella mia vita di migrante, destinato a nascere e a scomparire sempre… Ma verrà un giorno, sarò un albero, finalmente, nella terra degli altri e farò frutti e meraviglie, che mai nessuno avrà visto uguali! »

Renato Zilio

Padre Matteo Ricci, Macerata, la Cina

In Italia, ci sono circa 300.000 cinesi, distribuiti principalmente in tre regioni: Lombardia, Toscana e Veneto; nelle Marche il loro numero ammonta a 9.000: vivono principalmente lungo la costa meridionale, a sud di Fermo, alcuni di loro sono dediti al commercio, altri lavorano nelle fabbriche in veste di operai. Nel corso degli anni hanno stabilito un ottimo rapporto con il consolato cinese di Firenze.

Mi fornisce queste informazioni don Giovanni Battista Sun, presbitero diocesano del Centro Studi Li Madou (nome di Padre Matteo Ricci in cinese) di Macerata, il quale ha accettato molto gentilmente di incontrarmi. Nella nostra diocesi, aggiunge, non esiste una comunità di cattolici cinesi, in quanto il loro numero è assai esiguo. Lo scorso anno il vescovo di Prato è venuto a Macerata con l’intenzione di avviare un percorso di evangelizzazione, ma la pandemia ha ostacolato la realizzazione del progetto.

Ci sono state tre grandi ondate di emigrazione dalla Cina verso diversi paesi del mondo: la prima ha avuto luogo un secolo fa, la seconda 30-40 anni or sono. Gli emigranti cinesi provenivano in gran parte da una provincia poverissima, prossima a Shanghai, lo Zhejiang, che oggi è una delle più fiorenti. Allora milioni di cinesi hanno lasciato la loro terra e l’80% circa di essi provenivano proprio da quella zona. Si trattava di persone con un basso livello di istruzione, disposte a svolgere per lo più lavori umili.

Oggi assistiamo alla terza ondata, il livello culturale si è innalzato. A Macerata, per esempio, tanti giovani cinesi frequentano l’università e l’Accademia di Belle Arti; appartengono a famiglie benestanti che stimano prestigiosa la formazione culturale che i loro figli possono acquisire in Italia. A Macerata esiste anche uno dei 500 Istituto Confucio del mondo, ma esso non possiede un taglio religioso.

Dal canto suo, il Centro Studi P. Matteo Ricci, si è fatto promotore di tante iniziative volte a divulgare a livello internazionale la conoscenza del grande missionario maceratese (in Cina tutti lo conoscono, ma i maceratesi ne hanno una conoscenza alquanto superficiale). Inoltre lo stesso centro ha avviato nel tempo varie attività per fornire aiuto agli studenti cinesi nei loro studi (corsi di lingua), per far conoscere diversi aspetti della cultura cinese agli italiani (Giornate dell’Amicizia, 2009-2010, Festa del Capodanno Cinese) e per offrire occasioni di incontro ai cinesi stessi. Tuttavia, la presenza dei giovani studenti a Macerata è transitoria e ciò impedisce la formazione di una comunità sotto il profilo religioso.

Fervono anche gli scambi culturali tra scuole maceratesi e cinesi, da diversi anni ormai al Liceo Linguistico G. Leopardi della città è entrata a pieno titolo lo studio della lingua cinese. Non sono da tralasciare anche rapporti di natura economica-commerciale tra le nostre zone e alcune città della Cina.

Insomma, attualmente i legami con la Cina sono numerosi e di varia natura, c’è ancora molto da fare, ma una verità è certa: P. Matteo Ricci ha gettato dei ponti che ancora esistono e appaiono percorribili in entrambe le direzioni.

Raffaela Fermani
(Componente della Commissione Regionale Migrantes Marche)