Per un “noi” sempre più grande

Ho preso in mano il telefono, giorni fa, per salutare qualche famiglia dei nostri missionari. Quelli partiti – e seppure abituati ai viaggi – per quel « lungo viaggio senza valigie » e senza ritorno… Vivono, ormai, nel mistero dell’abbraccio di Dio. Far sentire, così, ai loro familiari come siano parte, essi stessi, della nostra famiglia scalabriniana. E farlo da Loreto. Dove si venera non un’apparizione, nè un’immagine della Madonna, ma una « casa ». La casa di Maria : una vera icona. Perchè parlare di casa, di trovare casa, di sentirsi a casa là, dove il destino vi porta,… è il sogno più grande di un migrante. E « casa » dice sempre famiglia e il suo tesoro, lo spirito di famiglia. Spirito inclusivo, per eccellenza. Spirito del « noi ».

Al telefono, la voce di Giovanni Miazzi, il fratello di padre Antonio. Era tornando a casa dall’Australia, un giorno, che il missionario perdeva la vita in India, in un incidente aereo. Aveva solo 30 anni. Il ritratto, fatto dal Superiore generale, Larcher, non poteva essere più bello: « ottimo sacerdote e religioso, vero missionario, egli ci lascia esempio di vita piena, austera, sacrificata, degna del più vero ideale scalabriniano ». Giovanni, ora come allora, ha sempre un nodo alla gola, un’amarezza dentro, pensando a quel funerale di Antonio, nel seminario di Bassano. Proprio là, dove era cresciuto, giovane seminarista, carico di speranza e di promesse. Parlarne gli fa tanto bene. Le ferite profonde vanno sempre accarezzate.

A Angelo Ferrari, in Piacenza, fratello di padre Amerio, pare sempre di rivederne il volto dappertutto. Con quel mezzo sorriso sornione negli occhi, un carattere amabile e frizzante. Sì, assomigliava al vino di queste terre, il rosso Gutturnio, fresco e pétillant. I ricordi, allora, spumeggiano, il cuore si apre… A un certo punto, la voce al telefono non si ode più. L’emozione ha preso ormai il sopravvento.

Della famiglia di padre Pietro Celotto un nipote si mostra fiero del loro missionario, per le sue tante peripezie e il coraggio dato a piene mani. Come quando, a sessant’anni suonati, approda nella metropoli londinese, senza sapere una sola parola di inglese. Lui stesso ne restava ammirato, come il viverci per tanti anni. Poi, dal cimitero del paese il giovane invia il giorno stesso la foto della sua tomba. Ordinata, pulita, fiorita di rosso perfino in pieno inverno (per la cura di due donne)… proprio come era padre Pietro. Sicut in vita, sic in morte.

Liberato Properzi si affretta a comunicarvelo, dopo esserci stato di persona. A Boston, nel quartiere Sommerville, c’è « Properzi way », una via dedicata allo zio, padre Nazareno, da Corridonia, borgo antico delle Marche. Ne è  fiero, respira mondo. Ma i suoi confratelli ne avevano fatto già un monumento, eleggendolo provinciale per una dozzina d’anni, capitolare, economo, e dandogli responsabilità di parroco fino all’ultimo giorno. Superiore prudente e illuminato, spirito dolce e talento  pittorico, un vero riflesso dell’animus delle Marche, regione dal paesaggio invidiabile, tutto colline, antichi borghi e sapore d’infinito.

Lamberto Minchiatti, invece, dalla terra umbra ricorda le tante volte che fu in America per visitare padre Francesco, lo zio. Occasioni straordinarie per aprirsi a un altro mondo. Lo ha voluto accanto, poi, nella sua tomba di famiglia, riportato da laggiù. Perchè padre Francesco adorava la sua terra. Quando era qui in vacanza, si metteva in giardino, con un paesaggio incantevole, lasciandosi sfuggire: « Deve essere proprio così il paradiso ! Anche se, per me prete, non è una certezza, ma una speranza… » Da qui, « Checchino » era stato strappato a undici anni dal parroco stesso, convinto della sua chiamata, per accompagnarlo in un lunghissimo viaggio in treno all’Istituto dei missionari scalabriniani di Bassano (Vi), appena aperto. Il seminario di Perugia chiedeva una retta, cosa impossibile per la famiglia. Sognava di terminare i suoi anni a Loreto, all’ombra del santuario. Ritornare, finalmente, cosí, alla sua terra e alla sua pace.

Donato Cogo vi parlerebbe per ore del loro « Bepi », come lo chiamavano tout court. A cominciare da quando padre Giuseppe tornava dall’America in clergyman, mentre la mamma, contrariata, pretendeva la veste talare. Arrivava, facendo felici i fratelli con la prima radiolina o il primo rasoio elettrico, portato da oltreoceano. Se lo ricordano ancora da ragazzi, quando bisognava andare a pescare i « marsoni » nei fossi, che in casa, poi, si cucinava per mettere qualcosa sotto i denti. Ma anche quando fece di tutto per imbarcare papà e mamma in aereo e portarseli a Roma in udienza, davanti a Paolo VI. Masterpiece, un colpo da maestro ! Il suo segreto ? « Essere allegro, evitare e superare i conflitti » confessa Donato, sintetico. Arte appresa in famiglia, da piccolo, con tanti fratelli, altrettante baruffe. « Ora, è andato avanti ! » conclude da vero alpino.

Luigino Crevani vi racconterà come il piccolo borgo di Romagnese (Pavia) –  settecento anime in tutto – entrava in fibrillazione, alla sola notizia del prossimo arrivo di padre Decimo dall’America. Allora, ognuno aveva una santa messa da fargli dire. Ma lui non voleva offerte. Solo un caffè, che spesso diventava una cena. La convivialità, é vero, non ha prezzo.

A Vergiate, nel lombardo, Antonio, il nipote di padre Silvano Guglielmi vi dirà il piacere di andare a prenderlo, immancabilmente, alla stazione ogni volta che capitasse. La chiesa, allora, di domenica si riempiva, piena zeppa. Perchè lui portava sempre novità : era come un’ondata di vento fresco. Le cose le sapeva presentare con garbo e freschezza, da professore puntiglioso, direbbero i suoi alunni in seminario. E con quel taglio sociale – aggiunge il nipote – che spesso altri preti non hanno per nulla ! Allo zio muratore, che non andava a messa, assicurava già il paradiso, guadagnato dal suo duro lavoro… 

Flavia Zanotto a Nove, attende i suoi 90 anni per maggio. Ma, intanto, accennarle del fratello Padre Francesco la fa sognare. Pensa a quella sua imperturbabile saggezza che sapeva mostrare a tutti, quasi dall’alto di un pulpito. Signorilmente. E quella dolce calma spirituale, che sapeva sempre trasmettere. Dote di un capitano di transatlantico – come quello ormeggiato in riva al Brenta, il nostro immenso seminario minore a Bassano, di cui era rettore – con cui noi, battaglione di seminaristi degli anni ‘60, facevamo conoscenza già dalla verde età di 11 anni. Dove l’avesse preso questo talento resta ancora un mistero.

Forse, in fondo, tra le opere di misericordia corporale o spirituale c’è anche questa, per noi. Quella di coltivare i contatti con le famiglie dei nostri missionari defunti. Ne provano una gioia incredibile. Anche per questo li sentono ancora vivi.
Con emozione.
R.Z.

Quaresima: la missione di un eremo

Fonte Avellana nelle Marche: un monastero immerso nel verde, pietre antiche intagliate a mano, una comunità silenziosa di monaci, uno spirito fondatore, quello di Pier Damiani. Ma la sua ispirazione, lui la trovava in un eremo lontano: a Gamogna, nell’Appennino tosco-emiliano.

L’antico eremo è appollaiato su un crinale, a mille metri di altezza, circondato, anzi protetto, come un tesoro da cime di montagne tutt’intorno. Quasi un nido d’aquila. Emerge dai boschi soffici, estesi, di castagni rigogliosi. Il silenzio è perfetto, verdissimo. Il silenzio, infatti, prende il colore del luogo che lo accoglie e lo sposa. Prima di arrivare, una scritta vi invita: Entrate nel silenzio. Eremo di Gamogna.

Fare silenzio è sempre un dolce invito. Non si può imporlo urlando, per non entrare in contraddizione. È un invito calmo, seducente perché è entrare in un regno: quello dell’ascolto. E il primo a mettersi in ascolto sarà proprio colui che invita gli altri a farlo. Un cammino che si fa sempre in tre fasi: la prima, quando si entra. Poi, quando lo si abita e si resta nella pace. Infine, quando si esce. Per prendere dimora nel silenzio, è vero, c’è sempre una soglia da varcare. E il cammino è verso la tua interiorità.

Nella chiesetta dell’eremo la preghiera procede solenne, regolare, melodiosa, accompagnata fuori, spesso, dal cadere precipitoso dell’acqua e da folate di vento tormentate. Splendida immagine simbolica della vita di san Pier Damiani: monaco, abate a Fonte Avellana, fondatore di quest’eremo nel 1053. Poi, cardinale, diplomatico inviato dal Papa a Milano, a Ravenna, a Faenza, per dirimere controversie o conflitti. In tempi difficili, una forza tranquilla di riforma. Parola e scritti fecondi e profondi, radicati nella preghiera e nella sete di deserto di qui. In tempi duri e tempestosi.

A qualche passo dall’eremo, un cartello in legno, vicino al bosco, in bella calligrafia, recita: San Pier Damiani, dimmi una parola. Curioso modo di interpellare un santo che nacque mille anni fa«Ma mille anni sono come il giorno di ieri che è passato… », riecheggia qui un salmo (89,4), cantato con leggerezza invidiabile. Più avanti, un altro cartello, quasi in risposta: Beata colei che ha creduto (Lc 1,45).

Per continuare è necessario inerpicarsi per un sentiero ripidissimo. Sì, la fede è un cammino in salita, con il fiato corto, dove resistenza fiducia sono ingredienti indispensabili. Lo comprendi qui, salendo. Alla sommità, una splendida statua di Madonna sorridente col Bambino, seduta quasi sul vuoto del dirupo: altro aspetto che parla ancora della nostra fede di credenti. Costruire sul vuoto o, meglio, sul poco. Quale immagine più vera dell’opera di Dio?

Trovarsi, così, in pieno deserto, seppure fra verdissimi Appennini dove solitudine, pioggia, vento e sole erodono ogni aspetto fugace nel corso dei tempi. Dove camminare per sentieri solitari è incontrare l’essenza delle cose. Dei tuoi sentimenti. Ma, in fondo, quest’eremo lo senti stranamente ancora abitato e avverti la presenza invisibile di una infinita processione: una moltitudine di santi eremiti, di pellegrini e di penitenti. Si snoda lungo secoli interminabili di digiuno, di ascesi e di preghiera. Corteo immenso, che coltivava quell’amore al creato, che ritrovi ancora qui, nelle pietre lavorate al cesello. Un amore ancora più grande per il Creatore, che impregna le pareti annerite della chiesa. E una passione per la semplicità, la bellezza, l’interiorità. A loro tutto serviva per affinarsi lentamente e in lunghissimi anni prepararsi all’incontro con Dio. Trasformando questo monastero solitario in una lampada di spiritualità. O una città luminosa, posta sul monte.

Un cimitero piccolo e discreto accanto all’eremo, circondato da un alto muro sbrecciato, si stende in fondo a un dolce avvallamento. Visto dall’alto, ti sembra di intuire la pietà di queste cime tutt’intorno, quasi per cullare con cura quello che resta di uomini, costruiti dal silenzio e da una lunga preghiera. Soli e abbandonati all’Assoluto. In fondo, era il loro più profondo desiderio. Riposare, un bel giorno, in pace. Respirare, finalmente, l’amore di Dio. Raggiungere il mistero dell’essere umano e del suo Creatore. Ed è sempre vero ciò che si dice : «Quello che desideri più profondamente, un giorno, avverrà…»

Ripenso, allora, alle prime parole del Libro di vita, aperto su un tavolo, in quest’eremo, quassù. «Accogli con tutto te stesso l’amore che Dio ti dona per primo. Rimani sempre ancorato a questa certezza, la sola a dare senso, forza e gioia alla tua vita. Non si allontanerà mai da te il suo amore, non verrà mai meno la sua alleanza di pace con te. Egli ha impresso il tuo nome sulle palme delle sue mani».

Parole che mi incamminano sulle orme di san Pier Damiani, che ricordava ai suoi monaci: «Se tutta la tua vita sarà un’accoglienza libera e gioiosa del suo amore, una ricerca laboriosa e paziente del suo volto, solo con il Solo, sarai come un figlio davanti a Lui».

A sera, in silenzio, questo complesso monastico mi lascia intravedere una misteriosa bellezza. Mi domando da dove provenga questo fascino segreto, se non dall’ordine morale, spirituale dei monaci. Ma l’ordine delle cose non è tanto una risposta a un comando, quanto una risposta concreta a un amore. Lo vedi, quando si ripone un oggetto, si chiude una porta. La delicatezza esprime un mettere in pratica una fratellanza e una complicità nascosta con ogni creatura. Essa fa parte di un creato, di un ordine, opera di Dio. Lo vedi dalla cura ai dettagli, alle cose, che si riflette nell’opera delle loro mani. Un amore coltivato per Dio che qui si incarna e passa dall’animo al volto, dallo spirito al corpo. Il cuore di un monaco si rivela così.

Poi, assistere alla nascita del sole. Oggi, una vera battaglia. Nuvole grandi, nere, distese su tutto il cielo, un vento pauroso e tremendo. Tutto fremeva sulla montagna. Quasi con forza, la luce si faceva avanti ed era un vero dramma, scritto sulle pagine immense del cielo verso levante. Il sole si mostrò, infine, più forte, con sprazzi di luci laceranti e sguainati come spade accecanti. Là dove imperavano le tenebre, la luce, finalmente! «Dove è abbondante la colpasovrabbonda la grazia» (Rm 5,20)Consolante verità dello sguardo di Dio per ogni vita, pur miserabile o perduta che sia.

Quest’alba tormentata, però, mi ricorda una certezza. Nascere, in fondo, è sempre una conquista. Anche quando si tratta di idee nuove, di intuizioni o di progetti che sorgono in te. «Sono nato, per nascere…» scriveva Pablo Neruda. La libertà di esistere non ti è mai regalata: è un vero combattimento. E se condotto con la forza tranquilla e misteriosa di Dio, sarà vittorioso. Sì, ancora un insegnamento di vita dall’eremo, quassù.

In fondo, tutto questo, nel nostro deserto di oggi, la pandemia, per un eremo sperduto tra i monti, resterà la sua lezione più grande. Il cuore della sua missione.

Padre Renato Zilio
Autore di «Dio attende alla frontiera» bestseller EMI

Al cuore della missione: intervista ad una famiglia missionaria (parte 2)

Il precedente articolo ci ha raccontato, attraverso la testimonianza di Anna e Vittorio, la bellezza e la ricchezza del vivere in famiglia lo spirito di missione.

Se è vero che “chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia”, la storia di Anna e Vittorio ne è un esempio. Le meravigliose esperienze di accoglienza e affido raccontate nel precedente articolo, pongono le radici in un passato segnato anche da un dolore profondo, quello che nessun genitore spera mai di dover sopportare. Trovarsi in ginocchio ai piedi della croce che ti porterà via una figlia amata, senza sapere come potrai rialzarti. Ma si ritrovano accanto un’altra Donna, una Madre speciale, anche lei lì come loro ai piedi della croce e riesce ad infondere una forza e un coraggio soprannaturali. Il coraggio di accogliere l’invito di Dio, l’invito ad abbandonare il dolore per fare posto all’amore, unica medicina in grado di lenire questa ferita. “Donna, ecco tuo figlio”, Anna e Vittorio non se lo sono fatti ripetere due volte. Grazie ad una raccolta di beneficenza, dopo la morte della figlia, hanno permesso a Sindano, che col Battesimo ha preso il nome di Fabiola, una bambina del Kenia, di crescere e studiare. E così all’ottantesimo compleanno della nonna non c’era un “posto vuoto”, ma Fabiola, arrivata per l’occasione dal Kenia, a conoscere di persona la famiglia che con tanto amore le ha donato la vita. Un segno ancora più speciale ad abbellire e arricchire l’incontro: Fabiola è in dolce attesa, portando con sé in Italia la gioia tangibile della vita senza fine, che continua, imperterrita e instancabile.

Inizialmente, nei momenti di difficoltà, Anna pensava alla metafora della potatura della vite. I nostri dolori come prove inviate da Dio per poter rinascere. Una lettura animata dalla fede cristiana che però ha presto lasciato spazio ad un’altra consapevolezza. Gesù non è venuto sulla Terra per eliminare il nostro dolore, Lui l’ha abbracciato, questa è stata la sua risposta. La vita è una danza continua, una danza del dolore e della gioia, se ci inseriamo in questa danza riusciamo a dare e a lasciare un senso al nostro andare. Una vita al servizio del prossimo e della comunità quella di Anna e Vittorio, all’esperienza come famiglia affidataria si sono aggiunte le esperienze di volontariato presso varie associazioni, quali la Tenda di Abramo, la Caritas (di cui sono stati direttori per 5 anni), il carcere, e infine i viaggi missionari. Molte le mete missionarie, tra cui Kenia, Albania, Bosnia, o le Filippine, dove le suore hanno aiutato dei ragazzi sordomuti, premiate dalla gioia di vederli cantare e ballare durante le celebrazioni. Indimenticabile ed emozionante il viaggio missionario in Marocco, culminato nell’incontro con l’unico superstite dei monaci di Tibhirine al monastero di Midelt. La straordinaria forza della presenza cristiana in terra islamica, con missionari eccezionali, che si spendono per amare, dialogare, incontrare, più che convertire. L’esperienza vissuta in queste terre ti porta al cuore della missione: in mano solo la ricchezza del vangelo e avanti il fratello da amare.

Anna e i suoi compagni di viaggio a Midelt

“Tu nonna hai fatto il lavoro della compagnia!” così esclama la nipotina dopo che Anna le racconta come ha scelto di vivere la sua vita, dedicandosi ai figli e ai tanti bambini e ragazzi affidatari. Ed è proprio così che si sentono: genitori di tanti figli, ponte tra servizi sociali e gente comune, tra immigrati bisognosi di aiuto e associazioni varie. La vita da missionari di Anna, Vittorio e la loro famiglia è stata un respirare a pieni polmoni la profondità dei volti delle persone incontrate, delle loro storie e delle loro culture. Missione vuol dire stare vicino alle persone perché abbiano la vita. Vivere da missionari è un continuo confrontarsi, uno scambio continuo, è comunicazione, è amicizia, è arricchimento immenso. Ricchezza custodita gelosamente, visite e contatti continui, con tutte le persone che hanno fatto parte della loro vita. Vivere da missionari offre la Grazia di riconoscere e sperimentare la presenza di Gesù. Germania, Marocco, Kenia, Canada, Brasile, Filippine, Albania, Bosnia…il mondo diventa improvvisamente un’accogliente casa, e le persone che ne fanno parte non sono estranei, ma figli aiutati a crescere, fratelli e sorelle della porta accanto.

Il deserto e i suoi volti

La pandemia ci aiuta a riscoprire la ricchezza simbolica di un tema, che è dimensione essenziale della vita spirituale: il deserto.

Il popolo di Dio, dopo l’esodo e prima di entrare nella terra promessa, fa la sua dura esperienza dei quarant’anni di traversata del deserto, con le sue privazioni e minacce. È per lui una rude scuola, dove impara a dipendere dal solo aiuto della provvidenza di Dio. La sua fede è messa alla prova. Saprà che l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Il deserto, luogo nel quale si mette alla prova la fedeltà.

Per il profeta Elia, il deserto è rifugio lontano dai nemici, ma anche occasione del fiducioso abbandono alla volontà di Dio, che si prende cura del suo servitore. Il deserto, luogo dove la fede diventa adulta.

Il precursore del Signore, Giovanni il Battista, si ritira nel deserto, predicando la penitenza e la conversione. È lì che la gente viene a lui, come per percorrere un cammino simile al suo. Il deserto, luogo di penitenza e conversione.

I vangeli ci permettono di capire quale grande importanza abbia avuto il deserto nella vita di Gesù. Dopo quaranta giorni, che ricordano la traversata del deserto del popolo, Gesù è tentato dal diavolo nella grande povertà del deserto. È l’occasione per il Signore di manifestare la sua totale unione alla volontà del Padre, respingendo le letture sbagliate della Scrittura proposte dall’avversario.

Ma prima di tutto, vediamo che Gesù dopo giornate intere passate a predicare e a guarire i malati, si ritirava da parte, nel deserto, di preferenza nella notte, per lunghi colloqui con suo Padre. Il deserto, luogo di preghiera e di intimità con Dio.

L’evocazione di questi esempi ci aiuta a meditare sul posto del deserto nella nostra vita spirituale. Gesù ha ricordato lo Shemà Israel, «Ascolta, Israele».

La Parola di Dio ci comunica mediante la fede la vita divina. Deve essere meditata e assimilata nella nostra memoria, ispirare il nostro cuore e la nostra azione. Il deserto, nel rumore invadente e nella tentazione di fuga nell’esteriorità, significa l’interiorità riservata al Signore, lo spazio di silenzio, dove la Parola di Dio diventa mia vita. Il deserto, luogo dell’ascolto.

La nudità del deserto, nel quale l’individuo si trova senza difesa, aiuta a prendere coscienza della verticalità della mia relazione con Dio. Lui è Dio, io sono la sua creatura. Pensiamo alle lunghissime ore di adorazione del beato Charles de Foucauld davanti al Santissimo. Il deserto, luogo dell’adorazione.

Nella grande solitudine e povertà del deserto non ha senso chiudere la porta. Il deserto, luogo dell’accoglienza, dell’ospitalità, del cuore universale. Ed è questa, in fondo, la missione di ogni deserto. Specialmente in tempo di pandemia.

MISSIO MARCHE

Il senso di ogni missione: lo spirito di famiglia

Forse l’avrete pensato anche voi. A volte esaltiamo la famiglia, definendola importante cellula della società. Dimenticando, spesso, l’abitante di questa dimensione. Come per una conchiglia è quella realtà che l’ha costruita e la tiene in vita. Altrimenti, da conchiglia si trasforma in un fossile. E questa realtà si chiama «spirito di famiglia».

Nello spazio ristretto dell’ambito familiare, è il suo « genius loci », la sua originalità. É, infatti, il senso, il valore e l’anima stessa della famiglia. Per cui se mancasse, – e a volte disperatamente – appare, allora, la violenza domestica, lo sfruttamento, il femminicidio. Pane quotidiano, tristemente presente nella nostra attualità. Come una buona bevanda si trasforma in veleno. « From heaven to hell » usa dire, in questo caso, il mondo inglese.

In una famiglia, infatti, le differenze fondamentali dell’essere umano vengono alla luce, si incontrano. Sono la sessualità – l’essere uomo o donna – e la diversità di generazione, come essere adulti o bambini, giovani o anziani. Queste due differenze antropologiche fondamentali, in questo spazio circoscritto cercano di comporsi, di aggiustarsi e di armonizzarsi. Ciò diventa, spesso, un miracolo quotidiano. I suoi frutti, infatti, sono l’armonia delle differenze. La convivialità degli opposti.

Lo spirito di famiglia accoglie la differenza dell’altro, con la naturalezza di quando, al mattino, si apre la casa alla luce del sole. A differenza di un clan o di una tribù – realtà ben chiuse in se stesse – la famiglia diventa, allora, lo spazio che saprà accogliere la differenza dell’altro in ogni momento. Il suo spirito è, per eccellenza, inclusivo. Perfino, per un estraneo. Anzi, farà di tutto per inserirvi nel clima familiare. Per farvi sentire a vostro agio, come ogni altro componente.

Ricordo mio padre, quando passava un forestiere per casa. Se all’ora di pranzo, il suo invito abituale era : « Ma non si ferma a mangiare qualcosa con noi ? ». A noi ragazzi questo faceva un’enorme impressione. Era il passaggio subitaneo di un essere umano da estraneo a ospite. Ora, lo chiamerei, il frutto maturo dello spirito di famiglia. L’apprezzamento della diversità contagia perfino chi viene da altrove, da fuori o da lontano. Un antropologo, poi, ci insegnerà come il più grande salto di qualità della civiltà umana sia il passaggio da «hostis» a «hospes». Quando il nemico – quale era considerato un estraneo – si trasforma in ospite.

Ricordo pure quando, vari anni fa, a Ginevra, a un ritiro di tutto il presbyterium con il vescovo si invitò un anziano e accattivante professore protestante, Erich Fuchs, autore di un best-seller «Désir et tendresse». Ci lasciava tutti nello stupore quando affermava, senza mezzi termini – basandosi saldamente sulla Bibbia – che il primo senso del matrimonio o di qualsiasi altra unione è l’amore. Non altre dimensioni, come, ad esempio, avere dei figli. L’armonia familiare è il primo valore, in assoluto. Se non esistesse, tutto il castello crolla. Lo spirito di famiglia accoglie, supporta, integra, si investe, apprezza, sopporta, chiude un occhio e arriva perfino a trovare simpatici i difetti dell’altro. In una istituzione o in altra realtà lo spirito di famiglia inocula prossimità, armonizzazione, libertà, calore umano.

Dal punto di vista religioso, mi stupisce un aspetto che scopro in Africa. L’assemblea cristiana non la si chiama come da noi, con un’espressione divenuta ormai corrente «popolo di Dio». Là, i cristiani sono definiti «famiglia di Dio». Sottolineando, in questo modo, la prossimità. Ma anche la comunione tra persone differenti, dalle qualità e talenti diversi, dove nessuno è escluso. Perché solo nell’ambito della famiglia si riesce a dire paradossalmente: «La tua differenza è la mia ricchezza». Convinzione inaudita. Sconvolge, – al pari di una deflagrazione atomica – qualsiasi certezza o qualsiasi sicurezza identitaria, basata sull’idea opposta, a cui siamo forse educati. «La tua differenza è una minaccia, e quanto vorrei sopprimerla!»

Anche a livello globale, in fondo, lo spirito di famiglia riveste la sua importanza strategica. “Verso un noi sempre più grande” ricorda Papa Francesco. Ci aiuta a vivere il mondo come una casa comune. A percepire l’umanità come la nostra grande famiglia. Il suo spirito, – vero spirito missionario,- non finirà mai di stupirvi per i suoi miracoli. Qualora sia vivo.

R.Z.

Al cuore della Missione: intervista ad una famiglia missionaria (parte 1)

D’origine abruzzese, un senso di accoglienza innato, felicemente orgogliosi di essere ormai “cittadini del mondo”. Anna e suo marito Vittorio raccontano a MissioMarche la loro testimonianza di accoglienza missionaria, di amore e di aiuto verso il prossimo.

Non si definiscono una “famiglia missionaria”, perché, raccontano, le esperienze che vivono sono per loro una normale, ordinaria, risposta a situazioni di difficoltà che bussano alla loro porta. Non è forse questo il bello di essere cristiani? Trasformare l’ordinario in straordinario. Non è forse questo che fa uno spirito missionario? Non voltarsi dall’altra parte se un nostro fratello o sorella ha bisogno di aiuto, non chiudere la porta in faccia.

E così, famiglia affidataria dell’associazione “Ecco tuo figlio” da 36 anni, hanno gioiosamente fatto spazio a vari ospiti nella loro casa. Tante persone, tante storie: dietro ogni persona c’è una storia, una storia che aspetta di essere ascoltata, compresa, aiutata. Come la storia di Mohamed, ragazzo marocchino sopravvissuto miracolosamente ad una grave ferita da arma da taglio e ad altre disavventure che hanno spezzato il sogno italiano. “Grazie a voi è tornato in vita”, la gratitudine, l’affetto e l’amicizia della sua famiglia vanno oltre le semplici parole e prendono vita in uno scambio continuo di inviti, viaggi insieme, ricongiungimenti in giro per il mondo tra Marocco, Canada, Stati Uniti, ecc.

Hanno offerto sostegno a ragazze madri sole, in cerca di lavoro o di formazione, a bambini in attesa di ricongiungersi con i genitori. Come le bambine tunisine ospitate in attesa che la loro mamma guarisse da una malattia infettiva, o Paul, un bambino tedesco di cui si sono presi cura in attesa che fosse trovato suo padre. Ricordano l’abbraccio col papà e lo spontaneo affetto di bambino che esclama “e i capelli dove sono finiti?”, nel vedere che il papà intanto era diventato calvo. Nicolette, Camerunense, entra nella loro vita con la piccola Tchasi, di sei mesi, in braccio. Il fidanzato studia in Germania e lei rischia di rinunciare alla Laurea in Economia e Finanza. La accolgono e sostengono fino alla laurea, con l’aiuto di una rete di famiglie. Intanto il rapporto col fidanzato si consolida e nasce anche Kendrique. Dopo sei anni, laureata, con due figli, riesce a ricongiungersi e sposarsi. Oggi vivono felici in Germania arricchiti di una terza figlia.

“Il bello del vivere, è relazionarsi”, afferma Anna, che in lei la sente come una vocazione. Lasciare spazio a tante persone nella loro vita li fa sentire circondati d’amore. Offrirsi, donarsi, ritorna indietro in abbondanza. “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, e in questa gratuità cresce una ricchezza immensa, la ricchezza dei volti incontrati, della comunicazione, dello scambio, dell’affetto, dell’amicizia. Aver visto tanti figli crescere e trovare la loro strada li fa guardare al passato con gioia e al futuro con speranza, sicuri di aver offerto alle loro tre figlie un messaggio: la vita va vissuta pienamente, che non vuol dire riempirsi del proprio egoismo, ma dell’amore per il prossimo.

Giornata dei Missionari Martiri 2021: Vite intrecciate

Ai Segretari delle Commissioni Missionarie Regionali
Ai Direttori dei Centri Missionari Diocesani

Carissime/i,
vi raggiungo all’inizio del tempo di Quaresima per comunicarvi che è interamente disponibile il materiale di animazione e preghiera per la Giornata dei Missionari Martiri 2021 al seguente link.

Tra i materiali trovate:

  • Sette video che potete visionare e scaricare gratuitamente sin da ora al seguente link. Di settimana in settimana, tramite articoli e social network, vi proporremo focus e approfondimenti a riguardo.
  • Le schede didattiche dei video, disponibili a questo link.
  • Il progetto di solidarietà legato alla Giornata che trovate qui.

Proporremo anche due webinar con testimoni in collegamento dalla missione, nelle giornate del 21 e 24 marzo. In allegato la locandina.

Vi saluto fraternamente,

Giovanni Rocca
Segretario Nazionale Missio Giovani

Locandina della Giornata dei Missionari Martiri 2021

Marocco: alla scoperta della bellezza e della forza dell’incontro

«Vieni e vedi» ci sembrava dicessero i quasi 11.000 marocchini presenti delle Marche. Sì, la loro terra. Ricordando quel proverbio arabo «Se vuoi conoscere un amico, entra a casa sua». Così, proprio poco prima della pandemia, siamo partiti come Migrantes e Missio Marche per il Marocco. Una piccola e varia delegazione, accompagnata dal vescovo mons. Giovanni D’Ercole. Papa Francesco sottolinea: «Nulla sostituisce il vedere di persona». E per noi é stato il vedere l’atelier di tappeti delle suore francescane a Midelt dove lavora una cooperativa di un centinaio di donne musulmane. Ma il vero lavoro di tessitura, in fondo, sono loro stesse a farlo, le persone, nei loro incontri, nelle parole scambiate e nell’apertura reciproca. Uomini e donne di cultura, di sensibilità e di religione differenti ed è un miracolo quotidiano. «La bellezza di un tappeto» ricorda qui un proverbio, «viene dalla varietà dei suoi colori!».

Come il vedere la Chiesa nel Maghreb nei volti di tante religiose, di sacerdoti e di collaboratori: il loro senso della lotta e della speranza lo trovavamo semplicemente grandioso. Lo vivono in mezzo a questo popolo musulmano, spendendosi con tutte le loro energie. Ma anche il senso della loro preghiera, radicato nella vita che fanno. Ed è come una forza identitaria che li sostiene. Straordinaria. Si riconoscono discepoli del Signore nella terra del Profeta. Presenti, non per convertire, ma semplicemente per amare. Intensamente.

D’altronde amano, si vogliono bene, perché pregano bene; lo vediamo con i nostri occhi ogni giorno, in ogni comunità. La preghiera, infatti, è intensa, interiore, concreta: porta gli avvenimenti della vita di qui con gli incontri originali, profondi, trasformanti che i cristiani vivono con dei musulmani. Così, li vedi spessissimo in silenzio, immobili sulla stuoia. Sembra ripetano all’unisono con questo popolo: “Solo Dio è grande!” Superba lezione di umiltà. Sí, solo Dio è grande e chi lo sa incontrare.

Poi, in una piazza di Rabat, verso sera, affollata da tantissima gente in turbante e lunga djellaba marron, si scatenava l’appello alla preghiera da tutte le moschee della città. Pareva una strana e grandiosa sinfonia. Contesto originale, la città musulmana è come un grande monastero. Il tempo è scandito dai cinque appelli alla preghiera e ogni gesto, ogni istante, ogni saluto è impastato di fede. «Hanno sempre il nome di Dio sulle labbra!», esclamava qualcuno del nostro gruppo.

A Midelt sull’altopiano, osservavamo un monaco di Tibhirine, mentre prendeva il tè con gli operai musulmani del monastero. «È la mia seconda eucaristia», ci soffiava in un orecchio, con discrezione. Vedendo, in realtà, come per mezzo di un semplice pezzo di pane e del tè, quale senso di comunione egli respira con queste persone, anzi con tutto un popolo, con il quale condivide le sorti, non stentiamo per nulla a credergli… E rimaniamo ammirati di una così grande spiritualità dell’incontro. Ci risuonano, cosí, le parole del vescovo di qui, Cristobal: «Parlare meno dei musulmani, parlare di più con i musulmani. Parlare meno di Dio, parlare di più con Dio!» Nulla vale quanto l’incontro.
Forse per questo, il vescovo Giovanni D’Ercole, arrivati a nostra volta nelle Marche, ha ripreso poco dopo la via del ritorno sui suoi passi, in Marocco. Per vivere qualche tempo in quel monastero trappista – dove si prega in arabo e in francese – il mistero dell’incontro con l’altro. E, in fondo, il vero sapore dell’incontro con Dio.

R.Z.

Parlare a cuore aperto

Da padre Renato Zilio, missionario scalabriniano e direttore Migrantes Marche, una riflessione sull’importanza del dialogo

«Ma tu non ti confessi mai?» faccio un giorno al mio unico confratello, a bruciapelo. Mi risponde con un’occhiata un po’ incattivita. Come se mi fossi avventurato incautamente nell’intimior intimo meo. «Ma no! – gli ribatto – Non la confessione sacramentale, cosa tua sacrosanta, ma… dire quello che ti sta a cuore. Quello che in fondo ti fa male. O che ti fa star male…».

Ogni tanto parler vrai direbbero i francesi. Parlare a cuore aperto. Dialogare. Non chiudersi in un mutismo che non sappia condividere, preso dai propri pensieri. Senza dimenticare che «quando lanci le frecce della verità – come esorta un proverbio arabo – intingi sempre la punta nel miele».

Quando l’altro è di casa

Il 2020 è stato l’anno del Dialogo per la nostra congregazione scalabriniana. Senz’altro questo comincia a germogliare in noi stessi, tra di noi, coltivato nel proprio hortus conclusus. «Devi essere tu il cambiamento che vorresti vedere nel mondo» raccomanda un indimenticato leader indiano. Un giovane ex-confratello ci sorprendeva, invece, per l’entusiasmo disinvolto nel confessare le persone, facendolo alla domenica fino a qualche istante prima della sua Messa. Ciò ci interrogava: « Ha uno strano piacere di confessare gli altri, però lui non si confessa mai, non si apre mai, non parla mai di sé…».

Ricordo che una congregazione francese aveva prodotto una suggestiva immagine o un segnalibro, che ti trovavi sempre tra le mani. Vi stava scritto «Questi sono i nostri valori» e giù un elenco di qualità spirituali o non. Altrettanti segnali stradali sul cammino delle differenti comunità. Nel nostro segnalibro si potrebbe scorrere: Dialogo – al primo posto – Empatia, Spirito di humour e chissà quante altre sfaccettature di un carisma in cui la perfezione è un cammino, e non un fine. E dove la novità e la sorpresa dell’altro sono di casa.

L’importanza del terzo

Per dialogare bisogna trovarsi in tre. Non solamente a due, in comunità. Lo vedo qui e altrove. Il dialogo a due arriva spesso a un binario morto. Ognuno rischia di restare seduto, anzi paralizzato sulle proprie posizioni. La presenza di un terzo missionario, anche solamente per fare comunità, sarebbe particolarmente salutare. Sorge per incanto, tra l’altro, il senso di bene comune, e non quello dell’ognuno per sé.

L’anno del Dialogo dovrebbe anche stimolare incontri e formazioni per l’area europea, arenata in secche preoccupanti, da qualche tempo. Le nostre diocesi o servizi pastorali vari, invece, si sono lanciati nel dialogo a distanza via ZOOM, che si rivela una realtà sorprendente. Lanciati alla grande.

La tecnica indaba

E poi, il tempo per dialogare. La cultura zulu ha messo in campo una tecnica chiamata indaba, il parlare su un argomento spinoso, e questo per ore e ore. Riprendendolo in volte successive. Perché lo scopo è arrivare a un punto di incontro, mai a una rottura.

Ricordo come il sinodo dei vescovi anglicani, che si riunisce ogni dieci anni, tempo fa avesse adottato proprio la tecnica zulu dell’indaba per le sue discussioni più ardue. Da noi invece quando si profila il tempo dell’incontro, dello scambio e del dialogo: «Ma il sorriso dov’é mai ti é scappato?» mi é sfuggito l’ultima volta, vedendo volti tesi, già in anticipo, per questo tempo di scambio.

Relativizzarsi: una dote scalabriniana

Per dialogare bisogna sapersi svuotare. Lo faccio fare ai ragazzi a scuola, per introdurli in una dinamica interculturale. Quando chiedo di farmi tutti un vero bel respiro e subito, con la faccia rossa, si riempiono i polmoni per poi sbuffare. No, è proprio il contrario. In Estremo Oriente – dove si é affinata una plurimillenaria sapienza del respiro – si comincia per svuotarsi il più possibile. Il primo movimento è la kenosi. E preciso loro che una persona piena di sé non avrà nulla da accogliere, nulla da ascoltare dagli altri. Nessun dialogo. Svuotarsi di sé: grande lezione a livello fisico, psichico e spirituale.

«Deve solo sciogliersi un po’» mi confidava qualcuno che lo conosceva bene, parlando del nuovo parroco. Serio, preciso, pedagogo. Ma troppo ingessato, inquadrato. Coltivare allora lo spirito di humour, soprattutto su sé stessi. L’arte del relativizzarsi, di non prendersi troppo sul serio. E la trovo una dote squisitamente scalabriniana, aiuta il dialogo. E, per questo, da parte mia, a volte, con la fisarmonica mi faccio artista di strada. Paradossale, ma attraverso la musica faccio vivere la Fratelli tutti! e un bel senso di comunione… in fondo tutte ottime vitamine per il dialogo.

Padre Renato Zilio

Convegno Nazionale Missio Ragazzi

“Di me sarete testimoni fino ai confini della terra“
CONVEGNO NAZIONALE MISSIO RAGAZZI 2021

Sono aperte le iscrizioni al Convegno Nazionale Missio Ragazzi che si svolgerà online nelle giornate del 5 e 6 marzo 2021.

Al convegno interverranno:
• don Valentino Bulgarelli – direttore dell’Ufficio Catechistico Nazionale
• don Marco Ghiazza – assistente nazionale per l’Azione Cattolica Ragazzi
• don Luca Meacci – già assistente regionale Agesci Toscana
• don Valerio Bersano – segretario nazionale di MissioRagazzi

Realizzare il convegno in video conferenza, ci dà l’opportunità di ampliare il numero dei partecipanti e pertanto quest’anno vogliamo rivolgere l’invito a tutte le figure educative dei ragazzi dai 6 ai 14 anni come gli incaricati Missio Ragazzi, i catechisti, gli animatori, gli insegnanti di religione e non ultimo i genitori.

Il convegno si svolgerà su piattaforma Cisco Webex: tutti gli iscritti riceveranno sulla propria casella email il link di partecipazione alla videoconferenza 2/3 giorni prima del convegno.

I collegamenti saranno:
Venerdì 5 marzo dalle ore 18 alle ore 19.30
Sabato 6 marzo mattina dalle 09.30 alle ore 11.00
Sabato 6 pomeriggio dalle ore 16.00 alle ore 18.00

E’ prevista una quota di partecipazione di 10 € da versare nelle seguenti modalità:

Pagamento online con Carta di Credito o Pay Pal cliccando il link di seguito: https://fundfacility.it/missio/sostieni

BONIFICO BANCARIO:
Missio – Pontificie Opere Missionarie
IT 03 N 05018 03200 000011155116

BOLLETTINO POSTALE
Missio – Pontificia O. Infanzia Missionaria -Via Aurelia 796 – 00165 Roma
Conto corrente postale n° 63062632

Causale: Iscrizione Convegno Missio Ragazzi

Ricevuta del versamento va comunicata a ragazzi@missioitalia.it.

ISCRIVITI QUI

Sarà possibile iscriversi fino a due giorni prima del Convegno.

Per ulteriori informazioni 06 66 502 644